Una cosa che mi è capitato di sentirmi dire varie volte è che la psicologia e la psicoterapia non siano concrete. La medicina è concreta, l’ingegneria di certo, l’ecologia perfino, ma la psicologia e la psicoterapia non possono esserlo perché si occupano di pensieri e di emozioni, di come diamo senso a quello che viviamo e di come possiamo cambiare.
Questo modo di vedere si tramuta per molti in uno scoglio non da poco, quando sentono che qualcosa non va nelle proprie vite, ma sentono anche di non poter chiedere un aiuto perché: insomma, non è mica un problema concreto!
Allora mi chiedo: se sono concreti il mondo in cui ci troviamo, le case che abitiamo e le auto che guidiamo; se queste case e questo mondo li viviamo con dei corpi concreti anche loro… come è possibile che l’esperienza che facciamo di tutte queste cose non sia concreta?
Non è concreta l’emozione che proviamo quando nasce o quando muore una persona che amiamo? Non è concreto quell’amore? Ma pensiamo anche all’odio, al rancore, alla solitudine, alla paura di fallire e al desiderio di rischiare, all’immaginazione dei progetti di vita e all’ostinazione nel portarli avanti e al dolore nel doverli modificare e alla soddisfazione nel ritrovarli cambiati ma comunque nostri.
Ecco perché la parola che voglio riscoprire è concretezza, perché ci meritiamo di utilizzarla in modo più ampio, per esempio chiedendoci: come cambierebbe il mio modo di vivere le emozioni e i pensieri se iniziassi a dirmi che sono concreti?
Sono convinto che, se può essere utile nei momenti di serenità, avrebbe un effetto tanto più forte quando siamo in crisi, perché potremmo quantomeno smettere di incolparci di stare male per qualcosa che è solo nella nostra testa, o di dirci che si tratta solo di emozioni e idee, mentre potremmo iniziare a dirci: ok, sono nella mia testa e proprio perché sono nella mia testa e con la mia testa io do senso a quello che vivo, allora è importante che me ne occupi.
Non solo. Sono anche convinto che vedere concretezza in quello che pensiamo e proviamo, ce ne farebbe sentire maggiormente anche la responsabilità, per cui non potremmo più accantonare, ma ci troveremmo più facilmente a chiederci: come voglio e mi sento di cambiare? In che direzione?
Perché alla fine, seconcreta è l’esperienza che viviamo, che è fatta dal mondo che ci circonda, dal corpo che siamo, dalle relazioni che abitiamo, dai punti di vista che assumiamo, dalle emozioni che proviamo, dai desideri che custodiamo, allora concreti diventano anche cambiamenti a cui ci possiamo affacciare.
Secondo la Psicologia dei Costrutti Personali viviamo l’ansiaquando ci affacciamo a un futuro che non sappiamo immaginare e, tanto più questa impossibilità di immaginare riguarda una fetta rilevante della nostra vita, tanto più questa ansia si farà sentire.
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È molto comune, nella nostra cultura, l’idea per cui è bene essere qualcosa di unico: io sono così, nient’altro che così. È un racconto potente, emozionante, ma quale rischio che porta con sé? Il rischio è che, se le cose non vanno come ci aspettiamo, se arriva una pandemia, per esempio, a scombinarci i piani, ci troviamo con un pugno di mosche e, ripartire da un pugno di mosche, a cui diamo il nome di fallimento, diventa più difficile.
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Questo mix è l’esperienza che molti stanno vivendo oggi: da un lato le domande che si inseguono – cosa succederà al mio lavoro, alle mie relazioni, alle strette di mano? – dall’altro la paura che, se le cose dovessero cambiare, potremmo non riconoscerci più – che ne sarà di me se cambiano tutte queste cose della mia vita?
Per trovare un modo di stare in mezzo a questo affollarsi di domande, la parola che voglio riscoprire oggi è anche, perché, pur dentro i vincoli sociali e personali che ognuno vive, possiamo chiederci: nella mia vita sono stato anche?
Potremmo scoprire, se ci concediamo tempo e fatica, che siamo più complessi di quel monolite che ci eravamo raffigurati; potremmo scoprire lati di noi che ci piacciono e altri non vorremmo, che bontà e cattiveria, giusto e sbagliato non si distinguono in modo netto, nemmeno dentro la nostra storia; potremmo scoprire che nella nostra vita abbiamo avuto un ruolo attivo e che da lì possiamo ripartire a immaginare il futuro, per quanto anche sfocato, per quanto anche diverso da quello che ci aspettavamo, per quanto anche rischioso, ma di certo anche nostro.
Il tempo è una cosa strana: c’è e non c’è, si fa sentire ma proviamo a ignorarlo.
Sarà per questo, per dare corpo a qualcosa che corpo non ce l’ha, che tendiamo a suddividere quel flusso continuo?
Perché con il tempo raccontiamo come eravamo, come siamo e come saremo, trovando differenze e somiglianze, quindi abbiamo bisogno di qualcosa che faccia da unità di misura dei nostri cambiamenti – giornate, anni, età, fasi della vita, epoche storiche…
Anche questa pandemia la stiamo raccontando per fasi.
Ci sono state state la fase del pericolo lontano, poi quella della sottovalutazione, poi quella dell’emergenza, poi quella del lockdown, la cosiddetta fase 1, e ora siamo sempre di più dentro la fase 2, che potremmo chiamare fase della discrezionalità e della costruzione del futuro.
Nella fase 1 eravamo in una situazione di attesa e la risposta a molte domande era “no”, oggi siamo in una fase potenzialmente lunga e in cambiamento, nella quale, alle domande, si risponde con “dipende”, “pensaci”, “valuta”.
Questo, dandoci molta più libertà, ci mette di fronte alle nostre scelte e ai nostri timori, che non possono più stare nascosti nelle mura del divieto; ma diventano responsabilità personale e collettiva. Ma d’altro canto, c’è altro modo per costruire un futuro a lungo termine?
Anche nella psicoterapia emergono nuove domande – Cosa desidero? Di cosa ho paura? Cosa mi sento di fare? Cosa penseranno gli altri di me? Cosa dovrei fare? – che riguardano sì la vita da costruire dentro i nuovi vincoli, ma anche le nostre paure più personali e di vecchia data: la paura di sbagliare, la paura del giudizio, la paura di non essere all’altezza…
Perciò ansia, desiderio di rinchiudersi, desiderio di sottovalutare, di fingere che tutta la situazione non sia vera; ma anche la possibilità di chiederci: cosa vorrei tenere di questo periodo nel mio futuro? Cosa dicono di me queste nuove paure?Come posso fare?
Magari scopriamo che questa situazione sta facendo emergere vissuti che già ci appartenevano e che ora non possiamo più sopire; ma potremmo scoprire anche che la nuova scansione delle giornate non la vogliamo buttare, oppure che le relazioni hanno un valore diverso rispetto a quello che avevamo dato loro fino a due mesi fa. E quindi di nuovo, come possiamo fare per tenerci strette queste nuove consapevolezze e renderle concrete nel futuro?
Come possiamo fare? è la domanda che mi sono posto anche io quando ho deciso che avrei gradualmente ripreso a fare i colloqui anche negli studi di Mestrino e Padova e mi sono risposto due cose:
– primo, che rimane la possibilità, per chiunque lo desideri, di effettuare la psicoterapia via Skype. Questa scelta nasce, da un lato dalle ragioni sanitarie per le quali qualcuno potrebbe preferire non venire in studio, dall’altro perché, in queste settimane più ancora di prima, mi sono reso conto che la psicoterapia via Skype non è una psicoterapia inferiore, ma una delle possibilità che oggi abbiamo di stare nella relazione clinica, possibilità che porta con sé vissuti, significati, emozioni che permettono un lavoro intenso e personale;
– secondo, che, proprio perché il lavoro di psicoterapia è personale, se per qualcuno la terapia online è percorribile, per altri non lo è, quindi, seguendo le indicazioni dell’Ordine degli psicologi del Veneto, ho ritenuto fosse importante riprendere le attività anche di persona nei modi più sicuri possibile:
poltrone a distanza di almeno 2 metri;
obbligo di indossare la mascherina;
gel igienizzante in studio da usare all’arrivo e prima di uscire;
pulizia delle superfici e ricambio di aria fra un colloquio e l’altro.
Tutto questo per me significa novità, che nasce dal compromesso fra le vecchie abitudini e le nuove condizioni, perché, proprio come abbiamo sempre fatto con la vita, è così che possiamo ripartire dentro questa nuova fase: tenendo ciò che per noi conta, lasciando andare qualcosa che non ci piace, che non possiamo continuare oppure che non sentiamo più appartenerci, e costruendo nuove strade da percorrere.
Il contributo che ho provato a dare ruota attorno alle storie che raccontiamo di noi e degli altri, agli eroi che volevamo essere e a quelli che potremmo essere, partendo dal presupposto che in questo periodo stiamo riscoprendo una parola più di tutte: relazione.
Di seguito trovate il video e poi il testo che mi ha fatto – più o meno – da traccia.
Per questo tendo a ragionare per parole, quindi, quando mi è stato proposto di partecipare all’iniziativa “Noi restiamo in contatto”, mi sono chiesto quale parola stesse segnando più di altre questo periodo, e mi sono risposto: relazione.
Non mi riferisco solo al contraltare dell’isolamento, ma ne farei un discorso più ampio.
Partiamo da una domanda: come è successo che abbiamo imparato a considerare l’autonomia e la singolarità come contrapposte alle relazioni, come se le due cose si escludessero a vicenda?
Guardiamo alla nostra storia, l’idea di eroe solitario ci accompagna da Ulisse contro Polifemo, Il vecchio di Hemingway che affronta il marlin, la self made woman Miranda di Sex and the City, il rapper Tupac Shakur che intitolò il suo terzo disco Me against the world. Ma, anche ammesso che siano eroi solitari, la domanda di prima rimane: questo essere eroi solitari li rende estranei alle relazioni?
Tempo fa leggevo un libro di Jonathan Safran Foer, Possiamo salvare il mondo, prima di cena, che quasi all’inizio parla del Libro dei finali secondo il quale ogni respiro che facciamo conterrebbe una piccola parte di tutti i respiri della storia della mondo: Giulio Cesare, Napoleone, i mammut, la nostra maestra dell’asilo… tutti, attuali e passati. Foer poi dice: “A ogni ispirazione assorbivo la storia della vita e della morte sulla terra. Questo pensiero mi offriva una veduta aerea della storia: un’ampia rete fatta di un unico filo”.
Ecco, questa immagine della rete fatta da un unico filo mi è spesso tornata in mente in questo periodo perché rende bene la responsabilità del nostro ruolo individuale dentro un tessuto di relazioni; ci dice stare in relazione non è opposto a essere individui, ma anzi, proprio perché esistiamo come singoli, singoli nodi della rete, siamo interconnessi con gli altri.
Credo che l’esperienza che stiamo facendo di questo virus ci stia inchiodando proprio alla nostra condizione di esseri viventi in relazione – tutte: ristrette, online, cliniche, lontane, vicine, immaginate, solitarie, fra persone, economiche, fra età, fra specie…:
quando pensiamo “potrei essere venuto in contatto con il virus?” e allora scopriamo la miriade di persone con le quali siamo collegati in pochi passaggi;
quando sperimentiamo l’utilità e la fatica dell’isolamento sociale, che ha ricadute così ampie che a volte facciamo fatica perfino a convincerci che sia vero;
Quando ci ricordiamo che siamo ammalabili, quindi che potremmo noi stessi avere bisogno delle cure di qualcuno.
Bene, ma cosa possiamo farcene di queste nuove consapevolezze? Io immagino almeno tre strade, tutte e tre umanamente molto comprensibili:
Possiamo reagire con rabbia, obbligarci a tornare a vivere con le stesse convinzioni individualista di sempre, che però ora sono accompagnate dalla sensazione di fragilità, quindi, più ci aggrappiamo, più le sentiamo sgretolarsi, quindi più abbiamo paura che possano non reggere;
Possiamo rassegnarci, sentirci inermi, in balia del destino, stavolta la paura sarà diversa, più vicina al terrore, il terrore di chi sente che basta un colpo d’aria per cambiare tutto;
Possiamo concepire che abbiamo paura, ansia, panico e terrore; possiamo concepire che ci sono alcune cose che di questa quarantena ci piacciono, e che questo, magari, ci fa sentire in colpa; possiamo concepire che siamo arrabbiati perché sentiamo che ci toccherà cambiare il nostro modo di vivere, rimodulare le speranze su cui avevamo puntato. Possiamo dare spazio alla portata emotiva di questa delusione e poi, se ce la sentiremo, quando ce la sentiremo, potremo chiederci: Bene, cosa possiamo fare? Chi vorrei e chi mi sento e chi ho paura di essere con gli altri? Chi mi piacerebbe e chi ho paura che gli altri siano con me?
E così via, provando insomma a chiederci: in quali altri modi possiamo stare dentro quella rete a filo unico?
Io non so la risposta a queste domande, e credo anzi che in questo periodo circolino fin troppe risposte e ricette su come dovremmo vivere questo tempo difficile. Quello di cui sono convinto, invece, è che questo virus stia precipitato dentro le biografie di tutti noi e che quindi spetti a ognuno di noi porci queste domande e assieme dare spazio a quello che sentiamo, così da permetterci di costruire, da soli e quindi assieme, delle nuove storie, dei nuovi miti e dei nuovi eroi che vorremmo e essere.
Non è semplice, ma può valerne la pena, perché, di fronte a un cambiamento così grande, quello che siamo chiamati a fare è proprio far ripartire le storie: da qui, che tipo di eroi possiamo essere.
Il nostro modo di vivere il tempo è quello di scandirlo: ore, giornate, mesi, anni. In questa scansione, ci sono momenti a cui diamo significati particolari. I compleanni, per esempio, che spesso portano con sé momenti di riflessione, scelte e anche crisi: ho 20, 30, 40, 50, 60, 70 anni e la mia vita?
Un momento che per molti è un’occasione per fare il punto è quello del cambio di anno: come è stato l’anno appena concluso? Cosa voglio per l’anno prossimo? Con chi voglio l’anno prossimo?
Spesso queste sono anche le domande che le persone portano con sé quando vengono in psicoterapia, perché, di fronte al desiderio di cambiare qualcosa nella propria vita, poi si chiedono: va bene, ma come faccio? Cosa succede se cambio? Come si fa?
Per questo inizio di anno, vi presento oggi un breve Ted talk che si intitola “Prima di morire voglio…” dell’artista americana Candy Chang. Nel video racconta di quando fece un esperimento: scrivere su un muro “prima di morire voglio…” e vedere cosa avrebbero scritto le persone.
Il risultato del suo esperimento potete leggerlo e vederlo qui sotto, ma noi possiamo prendere spunto e chiederci: per questo nuovo anno, voglio…
Ci sono molti modi in cui le persone attorno a noi possono migliorare le nostre vite. Non interagiamo con tutti i nostri vicini, e così tanta esperienza non viene trasferita, sebbene condividiamo gli stessi spazi pubblici.
Così gli anni passati ho cercato modi di condividere di più con i miei vicini negli spazi pubblici, usando strumenti semplici come adesivi, stencil e gessetti. Questi progetti partivano dai quesiti che mi ponevo, ad esempio, quanto pagano di affitto i miei vicini? Come possiamo prestare o farci prestare più cose senza bussare alla porta al momento sbagliato? Come possiamo condividere di più i nostri ricordi degli edifici abbandonati, e comprendere al meglio i nostri paesaggi? E come possiamo condividere di più le nostre speranze per i negozi sfitti in modo che le nostre comunità possano rispecchiare oggi le nostre necessità e i nostri sogni?
Ora, io vivo a New Orleans, e sono innamorata di New Orleans. La mia anima è sempre confortata dalle vive querce giganti, che offrono riparo ad amanti, ubriachi e sognatori da centinaia di anni, e mi fido di una città che dà sempre spazio alla musica. Ho l’impressione che appena qualcuno starnutisce, New Orleans fa una parata. La città ha tra le più belle architetture al mondo, ma è anche tra le città degli Stati Uniti con più immobili abbandonati.
Vivo vicino a questa casa, e ho pensato a come rendere lo spazio più piacevole per i miei vicini, e ho pensato anche a qualcosa che ha cambiato la mia vita per sempre.
Nel 2009, ho perso qualcuno che amavo molto. Si chiamava Joan, per me è stata una madre, e la sua morte è stata improvvisa e inaspettata. Ho pensato molto alla morte, e mi ha fatto sentire una profonda gratitudine per i momenti trascorsi, e ha fatto chiarezza sulle cose che hanno un significato per la mia vita di adesso. Ma faccio fatica a mantenere questa prospettiva nella vita di tutti i giorni. Ho l’impressione che sia facile farsi prendere dalla routine, e dimenticare quello che è davvero importante.
Così con l’aiuto di amici vecchi e nuovi, ho trasformato la facciata di questa casa abbandonata in una gigantesca lavagna e ci ho stampato su una frase da completare negli spazi vuoti: “Prima di morire, voglio…” Così chiunque passava poteva prendere un gessetto, riflettere sulla propria vita, e condividere le proprie aspirazioni personali in uno spazio pubblico.
Non sapevo cosa aspettarmi da questo esperimento, ma il giorno dopo, il muro era pieno di scritte, e hanno continuato ad aumentare. E vorrei condividere alcune cose che le persone hanno scritto su questo muro.
“Prima di morire, voglio essere processato per pirateria.” “Prima di morire, voglio stare a cavalcioni sulla Linea del Cambiamento di Data.” “Prima di morire, voglio cantare per milioni di persone.” “Prima di morire, voglio piantare un albero.” “Prima di morire, voglio vivere senza vincoli.” “Prima di morire, voglio abbracciarla un’ultima volta.” “Prima di morire, voglio correre in aiuto di qualcuno.” “Prima di morire, voglio essere me stesso, completamente.”
Così questo spazio trascurato è diventato uno spazio costruttivo, e le speranze e i sogni delle persone mi hanno fatto ridere fragorosamente, piangere, e mi hanno consolato nei periodi difficili. Si tratta di sapere che non sei solo. Si tratta di capire i tuoi vicini in un modo nuovo e istruttivo. Si tratta di fare spazio alla riflessione e alla contemplazione, e ricordare quello che davvero ci importa di più mentre cresciamo e cambiamo.
L’ho realizzato l’anno scorso, e ho iniziato a ricevere centinaia di messaggi da appassionati che volevano realizzare un muro all’interno della loro comunità, così insieme ai miei colleghi del centro civico abbiamo creato un kit e ad oggi sono stati trasformati muri nei paesi di tutto il mondo, incluso il Kazakistan, il Sud Africa, l’Australia, l’Argentina e oltre. Insieme, abbiamo mostrato quanto coinvolgente possa essere lo spazio pubblico se ci viene data l’opportunità di dire la nostra e condividere di più gli uni con gli altri.
Due delle cose più preziose che abbiamo sono il tempo e i rapporti interpersonali. In un’epoca in cui aumentano le distrazioni, è diventato sempre più importante trovare il modo di mantenere la giusta prospettiva e ricordare che la vita è breve e fragile. La morte è qualcosa di cui preferiamo non parlare o a cui preferiamo non pensare ma, mi sono resa conto che prepararsi alla morte è una delle cose che ti dà maggiore forza. Pensare alla morte chiarisce la nostra vita.
Gli spazi condivisi possono rispecchiare al meglio ciò che è importante per noi come individui e come comunità, e con sempre più modi di condividere le nostre speranze, paure e storie, le persone intorno a noi possono aiutarci non solo a rendere migliore i luoghi, ma anche a condurre una vita migliore.
A tutti gli psicologi e psicoterapeuti è capitato che qualcuno ponesse questa domanda. Sono convinto che tutti i colleghi che hanno dovuto rispondere, l’hanno fatto con la consapevolezza che stavano dando una risposta parziale, perché la psicoterapia è un’esperienza così ricca e personale che è difficile dare una risposta univoca.
Va bene, ma: a cosa serve la psicoterapia?
Spesso queste cinque parole concluse dal punto di domanda portano con sé aspettative, speranze, paure (Es. dimmi che non serve a nulla! oppure dimmi che è la salvezza!) ma anche visioni del mondo come quella comune: la psicoterapia deve portare alla felicità. Quello che spesso immaginiamo quando parliamo di felicità è una sorta di stato continuo di benessere, oppure di accettazione inscalfibile di qualunque evento doloroso che possa capitarci nella vita. Ma è possibile che la psicoterapia porti a ciò? O meglio: esiste qualcosa che porti a ciò? O meglio: è realistico questo desiderio?
la psicoterapia è quella cosa che serve ad allargare il campo d’azione che il sintomo psichico restringe. Non ci consegnerà alla tragedia, non ci consegnerà al paradiso, ma ci farà stare al mondo con più cose.
Dicevo che ho ritrovato in queste parole la mia idea di psicoterapia perché il vissuto con cui molte persone arrivano è quello di vivere situazioni senza via di uscita, da cui sentono di non avere le risorse per uscire perché immaginano solo la ripetizione dei soliti comportamenti, nella cui efficacia, però, non credono più.
Allora, a cosa può servire la psicoterapia?
Assunto che ogni percorso è a sé, la psicoterapia può servire a dare senso a ciò che facciamo, alle situazioni di dolore e di felicità, alle scelte di vita che abbiamo fatto, alle relazioni che viviamo; può servire ad avere uno spazio che contenga ciò che di noi non ci piace; può servire a sentirci compresi, delusi, felici, tristi, fiduciosi…
In altre parole, la psicoterapia può servire, non a trovare il modo giusto di vivere, ma a sentirci più liberi di cambiare.
Illustrazione di Wren McDonald, apparsa sul New Yorker.
“Il cuore ha buona memoria” Mo Daviau, Aspettare ne valeva la pena
L’estate per molti e anche per me è un periodo in cui le letture si intensificano. La riduzione degli impegni quotidiani permette di dedicarsi a un’attività che sembra così controcorrente rispetto alla vita di tutti i giorni. Leggere infatti richiede di fermarsi, scoprire “la forma del cervello di un altro essere umano”1, l’autore, mettersi nei panni talvolta scomodi di persone che non siamo noi, i personaggi, scoprire come quelle vite, quei modi di vedere, quelle emozioni risuonano dentro di noi e da lì riconoscere dei nostri aspetti che, magari, ci sorprendono.
Questa estate, fra gli altri, mi sono imbattuto nel romanzo d’esordio di un’autrice americana – Mo Daviau – che si intitola Aspettare ne valeva la pena, edito dalla giovane casa editrice Ottotipi edizioni.
La storia che l’autrice racconta è una storia di relazioni, musica e viaggi nel tempo. Ebbene sì, i protagonisti hanno trovato il modo di viaggiare sia nel passato, sia nel futuro. In principio è tutto molto bello, questi viaggi permettono a Carl Bender e soci di recuperare i concerti a cui sognavano assistere, ma piano, piano, questa possibilità di muoversi liberamente negli anni, anche della propria vita, non solo crea problemi concreti, ma soprattutto genera dubbi.
Voglio veramente scoprire cosa mi accadrà in futuro?
Voglio veramente cambiare ciò che mi è accaduto in passato?
Chi diventerei se potessi cambiare la mia storia?
Ecco la forza universale della lettura: le loro domande diventano le nostre. Chi di noi non ha vissuto eventi, momenti, periodi, oppure fatto scelte nel proprio passato che a pensarci lo fanno soffrire e che, se potesse viaggiare nel tempo, vorrebbe cancellare dalla propria biografia? Ma cosa accadrebbe?
Quello che succede nel romanzo – senza svelarvi troppo – è duplice: da un lato cambia tutto, ma dall’altro resta tutto stabile, perché un solo episodio nella vita di una persona, per quanto possa essere importante, non è tutta la vita di quella persona.
E quindi, noi che i viaggi nel tempo non li possiamo fare, cosa ce ne facciamo di ciò che ci vorremmo cancellare?
Spesso nella stanza della terapia si ha a che fare proprio con quel passato che ci dà sofferenza, perché le persone hanno bisogno uno spazio per parlarne, piangerne, magari arrabbiarsi, e perché, come dicevamo, qualcuno vorrebbe che non fosse mai esistito. Ciò che poi si scopre, però, è che nella propria psicoterapia, se da un lato c’è lo spazio per contenere assieme a un’altra persona quella sofferenza, dall’altro non ci si può limitare solo a quel momento.
Nella stanza della terapia allora succede che la nostra storia si arricchisca, fino al punto che
Illustrazione di Guido Scarabottolo
quell’episodio diventa uno degli episodi della nostra esistenza, e che la nostra storia smette di essere una sola linea che collega pochi punti, come nella settimana enigmistica, ma piuttosto, un fiume attraversato da tante correnti che ci hanno formato, ci formano e ci permettono di cambiare.
Allora, potremmo dire che, anche nella stanza della terapia possiamo viaggiare nel tempo, non per cancellare dei pezzi della nostra vita, ma per cambiare la storia che raccontiamo e per ampliare il romanzo che siamo.
Negli anni ’70 capitava spesso che le esercitazioni militari americane finissero con lo schianto del velivolo. Pare ci siano stati più incidenti in Islanda che nel resto del mondo, dicono a causa del freddo che metteva in difficoltà le attrezzature dell’epoca.
I militari venivano salvati dall’aeronautica stessa e, assieme al loro salvataggio, i tecnici si occupavano di recuperare tutto il materiale utile.
Accadde nel novembre del 1973, nel territorio della fattoria di Einar Portseisson ed Eyrùn Saemunsdòttir. I due coniugi oggi novantenni raccontano di aver visto sopra le loro teste questo aeroplano in difficoltà, di averlo raggiunto quando le condizioni meteorologiche glielo permisero, ma di non aver trovato né persone, né cabina di pilotaggio, né motori, né ali: una carlinga abbandonata nella neve.
Immagino che la domanda che percorse le teste di tutti gli allevatori che ebbero lo stesso destino di Einar e Eyrùn fu molto simile: E ora cosa me ne faccio?!
Immagino il fastidio verso chi si era permesso di recuperare ciò che gli serviva, abbandonando gli scarti, senza nessuna attenzione per chi quelle terre le viveva. Immagino le discussioni, immagino i diversi punti di vista: «Cosa ci vuoi fare? Niente! È un rottame!», oppure «Chiamiamo il governo, che ci pensino loro a rimuoverlo!», oppure ancora «Proviamo a pensare a cosa potrebbe esserci utile».
La linea che prevalse fu la terza e fu così che piano, piano, queste carcasse d’aeroplani divennero magazzini, “capanni” per gli attrezzi, casette per la pesca e, in un caso, perfino un’abitazione.
Fu tale Helgi Jònsson che, a vent’anni dall’incidente, chiese a Einar ed Eyrùn di regalargli il loro pezzo di aereo per unirlo al suo e farne la propria casa.
Oggi Helgi vive ancora nella sua casa-aeroplano, e i rottami d’aereo sono diventati oggetto di documentari, location di video musicali, set di film e vere e proprie mete turistiche.
Quante volte, nella vita, abbiamo vissuto dei disastri di cui sentiamo di portare dentro i resti? Tanto che poi ci chiediamo: cosa me ne faccio di questo dolore?Cosa me ne faccio degli strascichi che mi ha lasciato? Quanto sarebbe bello se non fosse mai capitato? O magari ci siamo trovati a sperare in qualche soluzione magica: quanto sarebbe bello se fossi forte come Ercole e potessi scagliarlo via lontano, dove non mi ferisca più.
Credo che Einar, Eyrùn, Helgi e soci siano riusciti a trovare un modo alternativo di vivere le loro carcasse nel momento in cui hanno saputo fare i conti con i propri limiti, perché da lì hanno potuto cambiare le domande e vedere delle possibilità che all’inizio nemmeno sapevano ipotizzare.
Prima delle risposte, sono quindi le domande che ci poniamo a poter cambiare:
Come sto? Cosa mi sento di fare? In che altro modo posso vedere ciò che mi sta succedendo? Che possibilità so immaginare davanti a me?…
Perché, da queste nuove domande, lasciandoci il tempo di vivere le cose che ci succedono, potremmo scoprire che anche nelle nostre vite ci sono resti che ci fanno soffrire, ma che un giorno potremmo trasformare in case, modellini, foto sbiadite, racconti lontani o chissà cos’altro: capitoli o frasi della nostra storia a cui dare un nuovo significato, per aprire a nuove strade.
In questi giorni stavo riflettendo su un possibile articolo per chiudere questo 2016. Cosa dire? Cosa scrivere?
Spesso le feste, con annessa la fine dell’anno, sono un periodo di bilanci, personali e relazionali. Scrivere di questo? Mh, non mi convinceva.
Riflettendoci ancora, mi sono imbattuto in queste righe tratte dal libro “Passeggeri Notturni” di Gianrico Carofiglio*. Recitano così:
“Ipocognizione è un vocabolo difficile, poco usato ma piuttosto importante. Indica la situazione di chi non possiede le parole […] di cui ha bisogno per poter gestire la propria vita interiore e i rapporti con gli altri”
L’autore prosegue raccontando di uno studioso, Robert Levy [antropologo e psichiatra], che coniò il termine “ipocognizione” durante i suoi studi a Tahiti, in cui si accorse che le persone erano spesso sguarnite di fronte alla tristezza, o alla depressione, perché non avevano parole per identificarla:
“naturalmente la conoscevano e la provavano, ma non avevano per essa un concetto e un nome […] Non erano in grado di nominare, e quindi di elaborare la fragilità, la tristezza, l’angoscia”.
Quanto è importante a volte saper dire: sono triste, sono felice, sono arrabbiato?
Quanto, altre volte, sentiamo quelle stesse parole che si fermano, o decidiamo di fermarle, prima di poter uscire dalle labbra, tenendole quindi come un pensiero tutto nostro?
E quanto, altre volte ancora, cerchiamo delle parole diverse per noi stessi, per le nostre relazioni, e fatichiamo a trovarle?
Così ho trovato di cosa mi sarebbe piaciuto scrivere per questa fine dell’anno: delle parole che usiamo per raccontarci, per viverci.
E mi piace quindi concludere questo breve articolo, oltre che con gli auguri di rito a tutti, con una domanda:
In questi mesi l’ente previdenziale degli psicologi [ENPAP], l’alter ego dell’Inps per capirci, ha condotto una ricerca dal titolo “Indagine di mercato sulla psicologia professionale in Italia”, una ricerca nella quale ha intervistato 1000 persone rispetto alle loro idee sulla psicologia e il lavoro di psicoterapia.
Oltre ai vari aspetti specifici di possibile cambiamento per la professione, molto utili per gli psicologi, ma che riguardano poco i non addetti ai lavori, due capitoli credo siano una lettura interessante per tutti:
come gli italiani percepiscono il proprio benessere ed equilibrio rispetto alla crisi;
come gli italiani vedono la figura dello psicoterapeuta.
Italiani, crisi e benessere
Da quello che emerge, crisi [economica e non]significa sentirsi impotenti rispetto alla possibilità di decidere del proprio futuro: “non sentirsi in grado di essere indipendenti”. A questo sentire si affiancano vissuti di insicurezza, legata al non percepirsi in grado di accogliere i vari aspetti di sé, e solitudine, che si configura nel timore di non saper stare con le persone che ci sono accanto.
Se questa è la percezione di ciò che fa soffrire le persone, secondo gli intervistati il benessere corrisponde alla capacità di perseguire obiettivi significativi nella propria vita, essere empatici con gli altri, accettare se stessi e al contempo saper cambiare, saper affrontare le avversità in modo autonomo.
Quello che ne emerge è un quadro nel quale le persone vedono alcuni aspetti della propria vita come l’esatto opposto di quello che auspicano.
Che fare, quindi?
Psicoterapia e benessere
Nello scenario raccontato prima sembra che una figura come lo psicologo-psicoterapeuta diventi centrale nel potersi prendere cura della propria vita, nel non dare per scontato che il proprio modo di vedere ciò che ci succede sia l’unico possibile.
Quello che gli intervistati hanno detto, infatti, è che lo psicologo:
• fa emergere problemi personali latenti;
• offre un supporto specifico al problema emerso;
• aiuta a cambiare punto di vista sul problema;
• indica una nuova strada da perseguire per il proprio equilibrio.
In altre parole è come se per le persone la psicoterapia fosse un percorso che può sì partire da un problema specifico, ma si focalizza sulla possibilità di cambiare sguardo per costruire equilibrio e benessere in maniera più ampia nella propria vita.
Disegnare un nuovo paesaggio
Quale storia emerge da questa indagine?
Quando ho letto i dati e le analisi della ricerca, la prima impressione che mi è balzata agli occhi è stata quella di una storia, di un racconto comune.
Sembra che le persone si sentano spesso inserite in una via sempre più stretta, una via nella quale non sentono di poter seguire il futuro desiderato, una via nella quale le cose procedono al di fuori della loro volontà: come se fossero sempre le circostanze a decidere per noi.
Questo sentire, è facile intuirlo, può portare a sentirsi impotenti e, soprattutto, può portare a sentirsi di non avere alternative, di avere tuttalpiù lo spazio di immaginare possibilità diverse, ma senza sentire di poterci credere.
È proprio in questo spazio così piccolo e doloroso, però, che si può aprire il percorso di psicoterapia.
Nel racconto della ricerca, infatti, sembra che intraprendere questo percorso sia un modo per comprendere meglio se stessi, lavorare su ciò che emerge, non solo in termini di soluzione di un problema, quanto in termini di apertura verso nuove possibilità che questa volta si sentono come percorribili.
In questi termini, quindi, la psicoterapia è oggi per gli italiani, non più un vezzo per pochi, ma un modo concreto per riappropriarsi delle proprie scelte, costruire il proprio benessere e sentirsi capaci di affrontare le sfide della vita.