
illustrazione di Guido Scarabottolo
In questi giorni stavo riflettendo su un possibile articolo per chiudere questo 2016. Cosa dire? Cosa scrivere?
Spesso le feste, con annessa la fine dell’anno, sono un periodo di bilanci, personali e relazionali. Scrivere di questo? Mh, non mi convinceva.
Riflettendoci ancora, mi sono imbattuto in queste righe tratte dal libro “Passeggeri Notturni” di Gianrico Carofiglio*. Recitano così:
“Ipocognizione è un vocabolo difficile, poco usato ma piuttosto importante. Indica la situazione di chi non possiede le parole […] di cui ha bisogno per poter gestire la propria vita interiore e i rapporti con gli altri”
L’autore prosegue raccontando di uno studioso, Robert Levy [antropologo e psichiatra], che coniò il termine “ipocognizione” durante i suoi studi a Tahiti, in cui si accorse che le persone erano spesso sguarnite di fronte alla tristezza, o alla depressione, perché non avevano parole per identificarla:
“naturalmente la conoscevano e la provavano, ma non avevano per essa un concetto e un nome […] Non erano in grado di nominare, e quindi di elaborare la fragilità, la tristezza, l’angoscia”.
Quanto è importante a volte saper dire: sono triste, sono felice, sono arrabbiato?
Quanto, altre volte, sentiamo quelle stesse parole che si fermano, o decidiamo di fermarle, prima di poter uscire dalle labbra, tenendole quindi come un pensiero tutto nostro?
E quanto, altre volte ancora, cerchiamo delle parole diverse per noi stessi, per le nostre relazioni, e fatichiamo a trovarle?
Così ho trovato di cosa mi sarebbe piaciuto scrivere per questa fine dell’anno: delle parole che usiamo per raccontarci, per viverci.
E mi piace quindi concludere questo breve articolo, oltre che con gli auguri di rito a tutti, con una domanda:
quali parole vogliamo per il nostro nuovo anno?
Alessandro Busi
Mestrino, Padova e su Skype
* Le citazioni sono tratte da: “Passeggeri Notturni” di Gianrico Carofiglio, edito da Einaudi (2016).