
Illustrazione tratta dal libro “A che Pensi?” di Laurent Moreau, ed. Orecchio Acerbo, 2012
Ilaria1 ha 29 anni, una statura media e ama indossare vestiti colorati. È arrivata al Milano dal suo paese al sud per l’università e, una cosa tira l’altra, lì si è fermata.
Il giorno della sua laurea, in un caldo luglio di ormai tre anni fa, salì a festeggiarla tutta la famiglia. Se ci fosse stato un detector di emozioni e sensazioni, avrebbe rilevato una grande presenza di: orgoglio, aspettative e speranze, gioia, nostalgia e anche un pizzico di preoccupazione.
Dal settembre successivo, Ilaria si dedicò alla consegna del curriculum in vari istituti scolastici – pubblici e privati – della città.
La sua fortuna fu che, grazie a un incrocio di maternità e malattie, iniziò fin da subito una serie di supplenze, per cui poté pagarsi il TFA [Tirocinio Formativo Attivo per essere abilitata a diventare insegnante di ruolo] e oggi può partecipare al tanto agognato concorso.
Ilaria è a letto e la sveglia al led indica le 00 e 18.
“Eccolo”, pensa, quando sente il primo formicolio alle mani.
Da qualche mese le capita quasi ogni sera, tanto che ormai, pur non volendo, lo aspetta.
Si stende sulla schiena e inizia a contare, come le aveva consigliato un’amica.
“dieci, undici, dodici… e se va male? E se non passo?…”
Sembra che i pensieri escano magicamente dal suo controllo e, più lei tenta di arginarli, più sbucano come acqua dalle crepe di una diga.
“tredici, quattordici, quindici… e se va bene? E se…”
Si alza di scatto e accende la luce. Respira col fiatone.
Prende il libro dal comodino e legge qualche pagina prima che il cuore rallenti e gli occhi le si chiudano.
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Gli scritti sono passati e all’orale sono stati ammessi talmente pochi che la speranza è alta. Mancano tre giorni. Ilaria è al telefono con sua madre.
«Sei agitata?»
«No, mamma, sono abbastanza tranquilla»
«E con l’ansia come va?»
«Meglio, mamma, grazie»
«Guarda che è normale essere un po’ in ansia, ma vedrai che passerai sicuro»
«Certo, mamma, lo spero proprio».
Più risponde alle domande di sua madre, più sente la sua voce che diventa monotonale. Sa quello che deve dire, ma cosa vuole dire?
Quando riattacca, sente la bocca che le si tende e le lacrime iniziano a scendere. Si lascia cadere sul divano e resta a singhiozzare nella casa silenziosa.
“Cosa mi succede?”, pensa, “dovrei essere felice, invece… che stupida!”
Il pensiero si tramuta in veloci flash che si susseguono, uno dopo l’altro, come un treno coi vagoni disordinati a cui non sa dare un senso: il duomo di Milano, gli studenti, il mare, la sua famiglia, la metropolitana, i banchi, pane e panelle, il suo monolocale…
“Dovrei essere contenta”, si ripete, “dovrei…”
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Ilaria passa il concorso e diventa insegnante di lettere di ruolo in un liceo scientifico di periferia. I mesi sfilano e il lavoro le piace, eppure non riesce a togliersi dal torace quella strana sensazione di peso.
“Perché vivo qui? Voglio vivere qui? Come potrei cambiare, ormai? È questa la vita che voglio? Qual è la vita che voglio?”, sono alcune delle domande che le sbucano in testa, sempre più spesso.
Poco dopo Natale, tornata a Milano dalle vacanze in famiglia, decide di rivolgersi a uno psicoterapeuta della sua zona e inizia un percorso. Inizia in punta di piedi, quasi spaventata da quello che potrebbe scoprire.
Con un pensiero che faticherebbe a tramutare in parole, immagina di dover fare una radiografia e di scoprirsi diversa da chi pensa di essere.
Piano, piano, entra nel viaggio terapeutico e lo costruisce assieme al suo terapeuta, lo rende il proprio percorso, il proprio spazio: non un esame calato dall’alto, ma un racconto work in progress con il finale tutto da scoprire.
Nel corso dei colloqui Ilaria esplora la propria vita, le proprie scelte e prova a disegnare il futuro, i futuri, che vorrebbe: prova a immaginare in quali si vedrebbe e in quali no.
Inizia a pensare a quante cose ha dato per scontate nei propri 34 anni, a quante decisioni ha preso senza accorgersene, a quanto sia rimasta in attesa del «momento giusto» per ascoltare i propri desideri. Dà un senso a questo modo di vivere e trova il filo rosso ha percorso la sua vita. Non sempre le piace questo filo, non sempre è piacevole riconoscerselo, ma sa che è il suo, sa che è lei, e che da lì può partire per sperimentarsi diversa.
«La sensazione più forte non è quella che ora sia tutto rose e fiori», racconta una domenica mattina a un’amica davanti a un cappuccino, «è quella di aver ripreso in mano la mia vita, di sapere che, se voglio, posso anche fare cose diverse».
E l’ansia di prima? Che fine ha fatto?
Ilaria inizia a pensare anche a quell’ansia come a qualcosa che è stato suo e prova a darle un ruolo, un senso. La pensa come un segnale utile, una comunicazione che lei dava a se stessa, proprio in un momento in cui la sua vita stava cambiando e sentiva che le stava scivolando via, ma non sapeva dirselo diversamente.
«Sa, dottore», commenta con un mezzo sorriso durante un colloquio, «non tutta l’ansia vien per nuocere».
Alessandro Busi
Mestrino, Padova e su Skype
1 Gli eventi raccontati sono frutto della fantasia dell’autore. Ogni riferimento a fatti e persone realmente accaduti è puramente casuale.