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Alessandro Busi Psicoterapeuta Padova

Ogni vita merita un romanzo

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Mese: novembre 2019

Anche i rapper vanno dallo psicologo?

25 novembre 201918 marzo 2020
foto1

fotografia di Kyle Glenn

Un’emozione che molte persone che vorrebbero rivolgersi a uno psicologo, o iniziare un percorso di psicoterapia, dicono di vivere è la vergogna.
Cosa penserebbero gli altri se sapessero che vado dallo psicologo?
E cosa dovrei pensare di me?
Spesso questa vergogna nasce da due idee:
– da un lato una visione di autonomia e forza per la quale le persone riescono a risolversi da sole i propri problemi;
– dall’altro la sensazione per cui gli altri non vivono quello che viviamo noi; la sensazione per la quale le vite degli altri procedano nel modo “giusto” perché loro sono capaci di vivere, mentre noi no.
Questi presupposti, per molti, si rivelano un ostacolo complesso da superare prima di potersi permettere di dire: bene, voglio iniziare una psicoterapia.

Nel mondo della musica, un genere che ha sempre fatto del machismo e della dimostrazione della forza due dei suoi punti cardine, è il rap.
In molte canzoni rap – non in tutte – l’autocelebrazione è un elemento centrale: io sono forte, io ce l’ho fatta, io mi sono costruito con le mie sole mani.
Pur restando questi aspetti, è vero che anche il mondo del rap sta vivendo dei cambiamenti, grazie ai quali, per esempio, ci sono oggi sempre più musicisti che si sentono liberi di dichiarare la propria omosessualità, cosa impensabile già solo quindici anni fa; ci sono più donne che possono spiccare; il panorama di tematiche di cui alcuni scelgono di parlare nelle canzoni è più ampio.
Non è un caso che, sempre in questi ultimi anni, molti rapper importanti stiano scegliendo anche di far cadere la maschera da machi in favore di un racconto di sé più umano, semplicemente, potremmo dire, di ricordarsi che sono persone, e che quindi, come tutte le persone, hanno dei problemi, che come molte persone vanno dallo psicologo.
Questa cortina è stata rotta in primis dal rapper americano Jay-Z, che due anni fa, in una lunga intervista rilasciata al direttore del New York Times, non solo disse che finalmente aveva potuto far cadere i ruoli che doveva indossare all’inizio della carriera – “questo è chi sono”, dice, e poi “la cosa più forte che un uomo può fare è mostrarsi vulnerabile” – ma anche di come andare in psicoterapia individuale e di coppia gli abbia permesso non solo di cambiare, ma anche di ricostruire il suo matrimonio.

Qualche settimana fa è uscita un’intervista a un famoso rapper italiano che parla della propria psicoterapia.
Fabio Bartolo Rizzo, in arte Marracash, ha raccontato con molta onestà la sua psicoterapia, le ragioni per cui ci è andato e il beneficio che ne ha tratto.
Per non dilungarmi, lascio che siano le sue parole, di cui riporto qualche stralcio assieme al video dell’intervista completa, a parlare, perché sono convinto si spieghino da sé.

“Un po’ tutti abbiamo delle cose che non ci fanno stare bene con noi stessi: la differenza è quando sei in grado di tirarle fuori. Ci sono persone che non riescono neanche a parlarne con loro stessi, ma queste cose ci sono comunque e magari le somatizzano in altri modi
[…]
La cosa che funziona è che a un certo punto lui (lo psicologo) ti fa delle domande, o ti fa fare delle domande che non ti sei fatto da solo. Andare da lui è servito a capirmi e ad accettarmi di più.
[…]
Una delle cose più importanti di quest’ultima crisi è che non sapevo più in che cosa credere. Mi sembrava tutto finto: le relazioni, l’amore… non avevo più motivazione per alzarmi al mattino e fare le cose.
[…]
Se penso che andavo dallo psicologo, gli raccontavo che non riuscivo a scrivere, che non sapevo se avrei fatto un altro disco e come mi sentivo qualche mese fa, è incredibile come la mia vita sia ripartita“.

Alessandro Busi
Padova, Mestrino e su Skype

La paura della morte e della vita come la viviamo

11 novembre 201918 marzo 20202 commenti

Una vecchia massima latina diceva che, se si vuole avere la pace, bisogna prepararsi alla guerra: si vis pacem, para bellum.

Questa massima fu ripresa da Sigmund Freud, che la trasformò in chiave psicoanalitica: si vis vitam, para mortem – se vuoi la vita, pensa che nel tuo futuro ci sarà la morte.

Negli ultimi mesi, ho letto un libro di Irvin Yalom, famoso psicoterapeuta e romanziere americano, che in Fissando il sole affronta un tema che non solo accomuna, ma si presume contraddistingua proprio gli esseri umani dagli altri animali: la paura della morte.

Come l’autore suggerisce nel titolo, il pensiero della nostra morte è qualcosa come fissare il sole, qualcosa che ci fa male, ma che comunque ci succede di fare.

Proprio perché è strettamente legato alla vita, la paura della morte è un tema di cui si parla in psicoterapia e che apre le porte a uno sguardo sulla vita e su come la viviamo.

Oggi voglio provare a parlarne prendendo uno stralcio dal libro di Yalom. Nelle righe che seguono, leggerete il confronto fra una donna e il suo psicoterapeuta e i ragionamenti che ne emergono spero possano essere spunti utili per molti.

Buona lettura.

Alessandro Busi –
Padova, Mestrino e su Skype

yalom

*«mi permetta di rivolgerle una domanda forse banale. Perché la morte è così terrificante? Che cosa in particolare la spaventa della morte?»

Rispose istantaneamente: «Tutte le cose che non ho fatto».

«Vale a dire?»

«Devo proprio raccontarle la mia storia di artista. Io, per prima cosa, sono stata un’artista. Tutti quanti, tutti i miei insegnanti, mi dicevano che avevo un grande talento. Però, anche se nel corso della giovinezza e dell’adolescenza ho ricevuto riconoscimenti considerevoli in tal senso, quando ho deciso di dedicarmi alla psicologia ho messo l’artista da parte». Poi si corresse: «No, non è del tutto vero. Non l’ho messa completamente da parte. Comincio spesso un disegno o un dipinto, ma non li porto mai a termine. Inizio qualcosa e poi lo ficco in un cassetto della scrivania, che assieme all’armadietto nel mio studio è piena zeppa di lavori incompiuti».

«Perché? Se ama dipingere e comincia dei progetti, che cosa le impedisce di portarli a termine?»

«I soldi. Ho molto da fare e svolgo pratica terapeutica a tempo pieno».

«Quanti soldi guadagna? Di quanto ha bisogno?»

«Be’, la maggior parte della gente direbbe che guadagno un bel po’. Incontro i pazienti per almeno quaranta ore alla settimana, spesso di più. Ma ci sono le rette esorbitanti delle scuole private di due bambini».

«E suo marito? Mi ha detto che anche lui è un terapeuta. Lavora altrettanto sodo e guadagna quanto lei?»

«Ha lo stesso numero di pazienti, a volte di più, e guadagna anche di più: molte delle sue ore sono impiegate in test neuropsichici, che sono economicamente più vantaggiosi».

«Quindi sembra che tra lei e suo marito abbiate più soldi di quanti ve ne servono. Tuttavia lei mi dice che i soldi le impediscono di perseguire la sua arte?»

«Be’, si tratta dei soldi, ma in un senso strano. Vede, io e mio marito siamo stati sempre in competizione per chi dei due guadagnava di più. Non è una cosa riconosciuta apertamente, non è una competizione esplicita, ma io so che è lì, che esiste sempre».

«Allora lasci che le faccia una domanda. Supponiamo che una paziente venga nel suo studio e le dica di avere un grande talento e ardere dal desiderio di esprimersi dal punto di vista creativo, ma che non può farlo perché è in competizione con il marito per guadagnare più soldi, soldi dei quali non ha bisogno. Che cosa le direbbe?»

Posso ancora sentire la risposta immediata di Julia, con il suo stretto accento britannico: «Le direi: Sta vivendo una vita assurda!»

Da quel momento il lavoro di Julia in terapia consistette nel trovare un modo di vivere meno assurdo. Esplorammo la competitività nella sua relazione coniugale e anche il significato dei disegni abbozzati nella scrivania e negli armadietti. Prendemmo in considerazione la possibilità, per esempio, che l’idea di un destino alternativo stesse agendo per controbilanciare in qualche modo la linea retta che s’allungava tra la nascita e la morte. O c’era forse un vantaggio per lei nel non finire i suoi lavori e, quindi, nel non mettere alla prova i limiti del proprio talento? Forse voleva perpetuare la convinzione che avrebbe potuto fare grandi cose, se solo lo avesse desiderato. Forse c’era qualcosa di attraente nell’idea che, se avesse voluto, sarebbe potuta diventare una grande artista. Forse nessuna delle sue opere riusciva a raggiungere il livello che lei pretendeva da se stessa. Julia si trovò particolarmente in consonanza con quest’ultimo pensiero. Era eternamente insoddisfatta di sé e si appellava a un motto che aveva imparato a memoria all’età di otto anni, dopo averlo visto scritto su una lavagna a scuola: Buono migliore il meglio Non fermarti mai finché Il buono è migliore E il migliore è il meglio di te.

La storia di Julia è un altro esempio del modo in cui l’angoscia della morte può manifestarsi in forma occulta. Julia si presentò per la terapia con una gamma di sintomi che erano un travestimento quasi trasparente dell’angoscia della morte.

[…]

Julia aveva cominciato a confrontarsi direttamente con ciò che le impediva di vivere in modo soddisfacente la propria vita.

«Di cosa precisamente ha paura riguardo alla morte?» È una domanda che pongo spesso ai miei pazienti, perché provoca una varietà di risposte che spesso accelerano l’andamento della terapia. La risposta di Julia: «Tutte le cose che non ho fatto» mette in rilievo un tema di grande importanza per molti che riflettono sulla morte o devono affrontarla: la sicura correlazione tra la paura della morte e la percezione di una vita non vissuta. In altre parole, più la vita viene percepita come non vissuta, più grande è l’angoscia della morte. Più non si riesce a sperimentare la vita con pienezza, più si avrà paura di morire.

* questo stralcio è preso da pagina 45 di Fissando il sole di I. Yalom, edito da Neri Pozza.

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