
C’è questo libro molto famoso nel mondo della psicologia, che si intitola Uno psicologo nei lager e fu scritto da Viktor Frankl.
Viktor Frankl venne deportato con il numero 119.104. Era il 1942. Da Vienna avrebbe potuto andarsene un anno prima, avendo ricevuto il visto per l’espatrio, ma scelse di restare per continuare, in qualità di direttore del padiglione delle suicide dell’ospedale psichiatrico Am Steinhof, la resistenza al programma nazista di eliminazione dei pazienti psichiatrici.
Nei tre anni da deportato, Frankl finì in 4 diversi campi di concentramento – Theresienstadt, Auschwitz, Kaufering III e Turkheim – e si ammalò di tifo. Sopravvisse. Quando concluse la sua prigionia, scoprì di essere rimasto sostanzialmente senza famiglia, ognuno dei cui membri era stato ucciso. In campi diversi da quelli in cui era stato lui furono uccisi la moglie con cui si era sposato un anno prima di essere deportato, il fratello e i genitori.
Che senso aveva continuare a vivere?
Questa è la domanda che percorre le pagine del suo Uno psicologo nei lager, un libro che, se nella prima parte esplora come si possa desiderare di sopravvivere perfino dentro una situazione disumana come un campo di concentramento, nella seconda va incontro alla condizione del sopravvissuto, di chi deve ricostruire le ragioni che lo tengono in vita.
Secondo Frankl quello che lo tenne in vita, quello che ci tiene in vita, non è la felicità, ma sentire che quello che facciamo ha senso. È lì che le contraddizioni che siamo possono avere spazio, che le nostre scelte, azioni, rinunce diventano comprensibili in quanto imbevute della nostra biografia, che si tinge a sua volta di un nuovo valore, un valore per cui sentiamo che merita di essere vissuta.
Quelle che ho scelto di riportare di seguito sono le ultime due pagine del libro, che credo riescano a condensare il pensiero dell’autore e di questo testo, scritto di getto, in nove giorni, a nemmeno un anno dalla liberazione.

Tutti lo sapevano, nel lager, e lo dicevamo tra noi: non esiste gioia sulla terra che possa risanare ciò che stiamo soffrendo. Per noi la felicità non contava più. Ciò che ci teneva in piedi e che poteva dare un significato alla nostra sofferenza, al nostro sacrificio, alla nostra morte, non era la felicità. Eppure, all’infelicità non eravamo preparati. La delusione che il destino aveva deciso per noi non pochi ex internati, nella nuova libertà, è un’esperienza che questi uomini hanno superato solo a fatica e dalla quale non li si può distaccare facilmente.
[V. Frankl, Uno psicologo nei lager, Edizioni Ares: Milano, pp. 151-152]
[…]
In un modo o nell’altro viene il giorno in cui ogni ex internato, ripensando all’esperienza del lager, prova una strana sensazione. Egli stesso non comprende come abbia potuto superare tutto ciò che la vita del lager ha preteso da lui. E se vi fu nella sua vita un giorno – il giorno della liberazione – nel quale tutto gli apparve come un bel sogno, certamente arriva anche il giorno in cui tutto ciò che ha vissuto nel lager gli appare come un brutto sogno. Quest’esperienza dell’uomo tornato a casa sarà coronata dalla splendida sensazione che, dopo quanto ha sofferto, non deve temere nulla al mondo – tranne il suo Dio.
Alessandro Busi
psicologo e psicoterapeuta
a Padova, Mestrino e online
Ps: per chi volesse approfondire, consiglio questo articolo apparso a marzo su The Vision: Quando uno psicoterapeuta elaborò un libro sul senso della vita in una campo di concentramento.