Qualche giorno fa mi sono imbattuto in una vignetta di Christopher Weyant. Un topo dice all’altro, Odio ammetterlo ma, ora che il gatto è fuori, non so cosa fare con il mio tempo libero.
Il richiamo di Weyant è chiaramente al famoso detto dei topi che ballerebbero in assenza del gatto, ma sembra chiedere: siamo sicuri che succeda proprio così?
Non strappa il sorriso solo per il gioco con il modo di dire, ne richiama uno più amaro perché quella domanda sembra rivolgersi direttamente al lettore: quando il tuo gatto non c’è, cosa fai?
Potremmo riformularla domanda così: quando quello che consideri il tuo gatto sarà fuori, cosa farai?

Se ci pensiamo, è un’esperienza comune quella di dirci che quando una data situazione smetterà di esserci, allora potremo iniziare a fare quello che desideriamo.
Quando sarò in ferie, farò.
Quando avrò abbastanza soldi, farò.
Quando mi sposerò, quando compirò trenta/quaranta/sessant’anni, quando avrò un figlio, quando avrò il lavoro xy… solo allora potrò.
È un’esperienza comune sentire di essere dentro dei vincoli percepiti come troppo stretti, così stretti da impedire ogni movimento nel presente, se non nella possibilità di fantasticare. Fantasticare serve a immaginare il possibile che sarà possibile, serve a pianificare, o anche solo a dare corpo mentale a dei desideri che rimarranno tali; di certo permette di spostare dentro un futuro inaccessibile alcune cose che vorremmo e che al contempo ci spaventano, non per nostra volontà, ma – per stare nella vignetta – per la presenza del gatto.
Questo funziona fino a che succede qualcosa.
Alle volte è Il gatto che se ne va (es. le ferie iniziano, i soldi ci sono, il matrimonio avviene), altre volte arriva uno scossone nella vita – una pandemia, un compleanno… ognuno ha le proprie pietre miliari – che trasformano il modo di vivere il tempo, per cui quello spostamento nel futuro, da rassicurante diventa insostenibile.
Le ragioni per cui rimandavamo ci sembrano meno significative.
La prospettiva del domani toglie il respiro perché è diventata fattibile e perciò irraggiungibile.
D’altro canto, anche l’idea di scegliere quella cosa rimandata per tanto tempo è a sua volta insostenibile, perché, se la rimandavamo, avevamo – più e meno consapevolmente – delle ragioni: magari ci spaventano i cambiamenti che potrebbe implicare, quelli che potrebbe portare nelle relazioni che viviamo, come si sconvolgerebbe la nostra vita.
Quindi, quando il gatto non c’è, possiamo trovarci dentro esperienze di ansia, dentro l’insofferenza per la ripetizione di comportamenti che non ci piacciono e che non troviamo più ragionevoli, possiamo chiuderci, sentendo di non avere alternative da percorrere.
Ma allora basta agire!
Questa è la reazione che viene più facile pensare.
Se non ti piace come vivi, cambia!
Spesso troviamo online pagine che ci danno ingiunzioni di questo tipo. Liberati delle persone che non ti piacciono! Fai solo quello che desideri! Non procrastinare! Non rimandare! e via dicendo.
Non entro nella bontà in sé delle idee, metto una domanda: se fosse così facile, non lo faremmo già?
Se il topo della vignetta avesse facilità a scegliere di ballare o fare quello che desidera o capire quello che desidera, non parlerebbe con l’amico con quell’espressione allarmata più che preoccupata, banalmente: agirebbe.
Allo stesso modo ognuno di noi – più e meno consapevolmente – percorre la strada che trova più percorribile per sé, che non vuol dire sia sempre quella che desidera, o che aveva sognato, ma quella nella quale sente di poter camminare in quel momento della sua vita, a partire dal suo modo di vedere il mondo, le relazioni, se stesso.

Spesso succede che in psicoterapia arrivino persone che si sentono strette dentro questa morsa: da un lato, una vita così tanto spesa ad aspettare che il gatto uscisse da non sapersi pensare in modo diverso da “persona che aspetta che il gatto se ne vada”; dall’altro, sentirsi colpevole di non riuscire a seguire i buoni consigli ricevuti e i desideri che sente propri: è vero, sarebbe così semplice, perché non ci riesco?
E questa morsa si alimenta con il tempo che passa, che giorno dopo giorno dà vigore alle sensazioni di incapacità e di mancanza di alternative che dicevamo prima.
Per questa ragione, il lavoro in terapia può servire come spazio per capire cosa sta succedendo, dare rilevanza ai propri paure-speranze-desideri-rabbie…, recuperare il senso più ampio possibile che ha per noi stare in una situazione anche se fa soffrire e aver costruito i compromessi della nostra vita, ricostruire il gatto e la sua ossatura per dare significato al legame che abbiamo vissuto con lui negli anni, comprendere cosa immaginiamo per noi e per le relazioni che amiamo quando pensiamo di fare cose diverse; e da lì, se e quando sarà possibile, con i tempi che ognuno sente per sé percorribili, prendere in mano queste scelte e chiederci: ok, il gatto ha fatto parte della mia vita, ha avuto un ruolo significativo, anche con la sua presenza ho scritto questa storia. Ora che non c’è più, cosa mi sento di fare?
Alessandro Busi
Psicologo e psicoterapeuta
a Padova, Mestrino e online