
particolare della copertina di “Possiamo salvare il mondo, prima di cena” di Johnatan Safran Foer
La parola di oggi la riscopriamo* grazie all’iniziativa #NoiRestiamoInContatto della Scuola di Psicoterapia Costruttivista Icp di Padova: una serie di video di vari professionisti sanitari – psicologi e non – che esplorano il periodo che stiamo vivendo da punti di vista diversi.
Il contributo che ho provato a dare ruota attorno alle storie che raccontiamo di noi e degli altri, agli eroi che volevamo essere e a quelli che potremmo essere, partendo dal presupposto che in questo periodo stiamo riscoprendo una parola più di tutte: relazione.
Di seguito trovate il video e poi il testo che mi ha fatto – più o meno – da traccia.
Buongiorno a tutti, sono Alessandro Busi e sono uno psicologo e psicoterapeuta e, di fianco all’attività clinica, mi occupo anche di scrittura, di narrazioni.
Per questo tendo a ragionare per parole, quindi, quando mi è stato proposto di partecipare all’iniziativa “Noi restiamo in contatto”, mi sono chiesto quale parola stesse segnando più di altre questo periodo, e mi sono risposto: relazione.
Non mi riferisco solo al contraltare dell’isolamento, ma ne farei un discorso più ampio.
Partiamo da una domanda: come è successo che abbiamo imparato a considerare l’autonomia e la singolarità come contrapposte alle relazioni, come se le due cose si escludessero a vicenda?
Guardiamo alla nostra storia, l’idea di eroe solitario ci accompagna da Ulisse contro Polifemo, Il vecchio di Hemingway che affronta il marlin, la self made woman Miranda di Sex and the City, il rapper Tupac Shakur che intitolò il suo terzo disco Me against the world. Ma, anche ammesso che siano eroi solitari, la domanda di prima rimane: questo essere eroi solitari li rende estranei alle relazioni?
Tempo fa leggevo un libro di Jonathan Safran Foer, Possiamo salvare il mondo, prima di cena, che quasi all’inizio parla del Libro dei finali secondo il quale ogni respiro che facciamo conterrebbe una piccola parte di tutti i respiri della storia della mondo: Giulio Cesare, Napoleone, i mammut, la nostra maestra dell’asilo… tutti, attuali e passati. Foer poi dice: “A ogni ispirazione assorbivo la storia della vita e della morte sulla terra. Questo pensiero mi offriva una veduta aerea della storia: un’ampia rete fatta di un unico filo”.
Ecco, questa immagine della rete fatta da un unico filo mi è spesso tornata in mente in questo periodo perché rende bene la responsabilità del nostro ruolo individuale dentro un tessuto di relazioni; ci dice stare in relazione non è opposto a essere individui, ma anzi, proprio perché esistiamo come singoli, singoli nodi della rete, siamo interconnessi con gli altri.
Credo che l’esperienza che stiamo facendo di questo virus ci stia inchiodando proprio alla nostra condizione di esseri viventi in relazione – tutte: ristrette, online, cliniche, lontane, vicine, immaginate, solitarie, fra persone, economiche, fra età, fra specie…:
- quando pensiamo “potrei essere venuto in contatto con il virus?” e allora scopriamo la miriade di persone con le quali siamo collegati in pochi passaggi;
- quando sperimentiamo l’utilità e la fatica dell’isolamento sociale, che ha ricadute così ampie che a volte facciamo fatica perfino a convincerci che sia vero;
- Quando ci ricordiamo che siamo ammalabili, quindi che potremmo noi stessi avere bisogno delle cure di qualcuno.
Bene, ma cosa possiamo farcene di queste nuove consapevolezze? Io immagino almeno tre strade, tutte e tre umanamente molto comprensibili:
- Possiamo reagire con rabbia, obbligarci a tornare a vivere con le stesse convinzioni individualista di sempre, che però ora sono accompagnate dalla sensazione di fragilità, quindi, più ci aggrappiamo, più le sentiamo sgretolarsi, quindi più abbiamo paura che possano non reggere;
- Possiamo rassegnarci, sentirci inermi, in balia del destino, stavolta la paura sarà diversa, più vicina al terrore, il terrore di chi sente che basta un colpo d’aria per cambiare tutto;
- Possiamo concepire che abbiamo paura, ansia, panico e terrore; possiamo concepire che ci sono alcune cose che di questa quarantena ci piacciono, e che questo, magari, ci fa sentire in colpa; possiamo concepire che siamo arrabbiati perché sentiamo che ci toccherà cambiare il nostro modo di vivere, rimodulare le speranze su cui avevamo puntato. Possiamo dare spazio alla portata emotiva di questa delusione e poi, se ce la sentiremo, quando ce la sentiremo, potremo chiederci:
Bene, cosa possiamo fare?
Chi vorrei e chi mi sento e chi ho paura di essere con gli altri?
Chi mi piacerebbe e chi ho paura che gli altri siano con me?
E così via, provando insomma a chiederci: in quali altri modi possiamo stare dentro quella rete a filo unico?
Io non so la risposta a queste domande, e credo anzi che in questo periodo circolino fin troppe risposte e ricette su come dovremmo vivere questo tempo difficile. Quello di cui sono convinto, invece, è che questo virus stia precipitato dentro le biografie di tutti noi e che quindi spetti a ognuno di noi porci queste domande e assieme dare spazio a quello che sentiamo, così da permetterci di costruire, da soli e quindi assieme, delle nuove storie, dei nuovi miti e dei nuovi eroi che vorremmo e essere.
Non è semplice, ma può valerne la pena, perché, di fronte a un cambiamento così grande, quello che siamo chiamati a fare è proprio far ripartire le storie: da qui, che tipo di eroi possiamo essere.
*Le precedenti parole de La riscoperta delle parole sono: attesa, quasi, vulnerabilità e come se.
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