Vai al contenuto

Alessandro Busi Psicoterapeuta Padova

Ogni vita merita un romanzo

  • Home
  • Chi sono
  • Psicoterapia
    • Psicoterapia
    • Aree di intervento
  • Lavoro con i gruppi
  • Contatti
    • A Padova
    • Su Skype
  • Spunti di riflessione

Tag: parole

La riscoperta delle parole #12: Storia

14 marzo 202112 marzo 2021

In questi mesi mi è successo di ascoltare alcuni podcast dello storico Alessandro Barbero.
Il modo che usa per avvicinarci agli eventi storici è quello di focalizzarsi sul senso che aveva per le persone dell’epoca comportarsi in quello specifico modo. È una precisazione che fa spesso: non pretendete di guardare con gli occhi di oggi gli eventi e le persone del passato, se li si volete capire.
Perché Cavour spinse tanto per l’Unità d’Italia? Perché i soldati italiani accettarono di combattere a Caporetto? Perché scoppiò la rivoluzione francese?
Se vogliamo capirli dobbiamo provare a metterci nei desideri di Cavour, nelle aspettative dei soldati sul fronte della Grande Guerra, nella visione del mondo e della società che c’era in Francia alla fine del ‘700.

***

Una sensazione che molte persone raccontano in psicoterapia è questa: la paura di aver sprecato il proprio tempo, di non aver scelto quello che volevano ma, talvolta quello che dovevano, talvolta quello che la vita faceva capitare loro sotto i piedi.
Questa sensazione porta con sé un rosario di altre sensazioni che vanno dall’incolparsi, al sentire il peso del tempo che passa, al pensare di aver sbagliato, o peggio ancora di avere qualcosa di intrinsecamente sbagliato: perché tutti gli altri sono capaci di vivere e io no?
Questa visione apre purtroppo a uno scenario difficile da scardinare, perché è lo scenario nel quale sentiamo di non avere la possibilità di incidere in prima persona in quello che sembra essere un destino già scritto.

Un’altra sensazione ricorrente in terapia è però anche lo stupore; lo stupore di prendersi del tempo per chiedersi: ma io, questa vita, come l’ho costruita?
Lo stupore, a volte piacevole e a volte doloroso, di guardare al proprio tempo, alle emozioni provate, ai bivi di fronte ai quali ci si è trovati, e ridare senso alle scelte fatte, che magari non erano quelle più desiderate, ma di certo erano quelle più sensate in quel momento.
In questo modo, infatti, possiamo scoprire che non abbiamo vissuto la vita dei sogni, ma quella che, dentro tutte le asperità che ci sono toccate, ci siamo conquistati. Le occasioni sprecate potrebbero iniziare ad avere un senso, e così il tempo lasciato andare, le scelte che ci apparivano così sbagliate.
Allo stesso modo possiamo capire anche quello che ci sentiamo di fare e di non fare oggi, quello che vogliamo e quello che ancora ci fa troppa paura; e da lì immaginare strade alternative e aprirci, se e come ce la sentiamo, a nuove possibilità.
Perché, se per comprendere la peste del ‘300, come dice Barbero, dobbiamo entrare negli occhi di chi viveva all’epoca, come possiamo pretendere di capire la nostra vita senza dare valore alla nostra storia?

Alessandro Busi
psicologo e psicoterapeuta
a Padova, Mestrino e su Skype

Le precedenti parole riscoperte sono: attesa, quasi, vulnerabilità, come se, relazione, virtuale, anche, compromesso, concretezza, crisi e paura.

Fare la psicoterapia nella fase 2

18 Maggio 202016 Maggio 2020

jeshoots-com-9n1USijYJZ4-unsplash

Il tempo è una cosa strana: c’è e non c’è, si fa sentire ma proviamo a ignorarlo.
Sarà per questo, per dare corpo a qualcosa che corpo non ce l’ha, che tendiamo a suddividere quel flusso continuo?
Perché con il tempo raccontiamo come eravamo, come siamo e come saremo, trovando differenze e somiglianze, quindi abbiamo bisogno di qualcosa che faccia da unità di misura dei nostri cambiamenti – giornate, anni, età, fasi della vita, epoche storiche…

Anche questa pandemia la stiamo raccontando per fasi.
Ci sono state state la fase del pericolo lontano, poi quella della sottovalutazione, poi quella dell’emergenza, poi quella del lockdown, la cosiddetta fase 1, e ora siamo sempre di più dentro la fase 2, che potremmo chiamare fase della discrezionalità e della costruzione del futuro.
Nella fase 1 eravamo in una situazione di attesa e la risposta a molte domande era “no”, oggi siamo in una fase potenzialmente lunga e in cambiamento, nella quale, alle domande, si risponde con “dipende”, “pensaci”, “valuta”.
Questo, dandoci molta più libertà, ci mette di fronte alle nostre scelte e ai nostri timori, che non possono più stare nascosti nelle mura del divieto; ma diventano responsabilità personale e collettiva.
Ma d’altro canto, c’è altro modo per costruire un futuro a lungo termine?

Anche nella psicoterapia emergono nuove domande – Cosa desidero? Di cosa ho paura? Cosa mi sento di fare? Cosa penseranno gli altri di me? Cosa dovrei fare? – che riguardano sì la vita da costruire dentro i nuovi vincoli, ma anche le nostre paure più personali e di vecchia data: la paura di sbagliare, la paura del giudizio, la paura di non essere all’altezza…
Perciò ansia, desiderio di rinchiudersi, desiderio di sottovalutare, di fingere che tutta la situazione non sia vera; ma anche la possibilità di chiederci: cosa vorrei tenere di questo periodo nel mio futuro? Cosa dicono di me queste nuove paure? Come posso fare?
Magari scopriamo che questa situazione sta facendo emergere vissuti che già ci appartenevano e che ora non possiamo più sopire; ma potremmo scoprire anche che la nuova scansione delle giornate non la vogliamo buttare, oppure che le relazioni hanno un valore diverso rispetto a quello che avevamo dato loro fino a due mesi fa. E quindi di nuovo, come possiamo fare per tenerci strette queste nuove consapevolezze e renderle concrete nel futuro?

Come possiamo fare? è la domanda che mi sono posto anche io quando ho deciso che avrei gradualmente ripreso a fare i colloqui anche negli studi di Mestrino e Padova e mi sono risposto due cose:
– primo, che rimane la possibilità, per chiunque lo desideri, di effettuare la psicoterapia via Skype. Questa scelta nasce, da un lato dalle ragioni sanitarie per le quali qualcuno potrebbe preferire non venire in studio, dall’altro perché, in queste settimane più ancora di prima, mi sono reso conto che la psicoterapia via Skype non è una psicoterapia inferiore, ma una delle possibilità che oggi abbiamo di stare nella relazione clinica, possibilità che porta con sé vissuti, significati, emozioni che permettono un lavoro intenso e personale;
– secondo, che, proprio perché il lavoro di psicoterapia è personale, se per qualcuno la terapia online è percorribile, per altri non lo è, quindi, seguendo le indicazioni dell’Ordine degli psicologi del Veneto, ho ritenuto fosse importante riprendere le attività anche di persona nei modi più sicuri possibile:

  • poltrone a distanza di almeno 2 metri;
  • obbligo di indossare la mascherina;
  • gel igienizzante in studio da usare all’arrivo e prima di uscire;
  • pulizia delle superfici e ricambio di aria fra un colloquio e l’altro.

Tutto questo per me significa novità, che nasce dal compromesso fra le vecchie abitudini e le nuove condizioni, perché, proprio come abbiamo sempre fatto con la vita, è così che possiamo ripartire dentro questa nuova fase: tenendo ciò che per noi conta, lasciando andare qualcosa che non ci piace, che non possiamo continuare oppure che non sentiamo più appartenerci, e costruendo nuove strade da percorrere.

Alessandro Busi
psicologo e psicoterapeuta a Padova, Mestrino e su Skype

La riscoperta delle parole #5: relazione

22 aprile 202022 aprile 20204 commenti

possiamo_copertina

particolare della copertina di “Possiamo salvare il mondo, prima di cena” di Johnatan Safran Foer

La parola di oggi la riscopriamo* grazie all’iniziativa #NoiRestiamoInContatto della Scuola di Psicoterapia Costruttivista Icp di Padova: una serie di video di vari professionisti sanitari – psicologi e non – che esplorano il periodo che stiamo vivendo da punti di vista diversi.

Il contributo che ho provato a dare ruota attorno alle storie che raccontiamo di noi e degli altri, agli eroi che volevamo essere e a quelli che potremmo essere, partendo dal presupposto che in questo periodo stiamo riscoprendo una parola più di tutte: relazione.

Di seguito trovate il video e poi il testo che mi ha fatto – più o meno – da traccia.

Buongiorno a tutti, sono Alessandro Busi e sono uno psicologo e psicoterapeuta e, di fianco all’attività clinica, mi occupo anche di scrittura, di narrazioni.

Per questo tendo a ragionare per parole, quindi, quando mi è stato proposto di partecipare all’iniziativa “Noi restiamo in contatto”, mi sono chiesto quale parola stesse segnando più di altre questo periodo, e mi sono risposto: relazione.

Non mi riferisco solo al contraltare dell’isolamento, ma ne farei un discorso più ampio.

Partiamo da una domanda: come è successo che abbiamo imparato a considerare l’autonomia e la singolarità come contrapposte alle relazioni, come se le due cose si escludessero a vicenda?

Guardiamo alla nostra storia, l’idea di eroe solitario ci accompagna da Ulisse contro Polifemo, Il vecchio di Hemingway che affronta il marlin, la self made woman Miranda di Sex and the City, il rapper Tupac Shakur che intitolò il suo terzo disco Me against the world. Ma, anche ammesso che siano eroi solitari, la domanda di prima rimane: questo essere eroi solitari li rende estranei alle relazioni?

Tempo fa leggevo un libro di Jonathan Safran Foer, Possiamo salvare il mondo, prima di cena, che quasi all’inizio parla del Libro dei finali secondo il quale ogni respiro che facciamo conterrebbe una piccola parte di tutti i respiri della storia della mondo: Giulio Cesare, Napoleone, i mammut, la nostra maestra dell’asilo… tutti, attuali e passati. Foer poi dice: “A ogni ispirazione assorbivo la storia della vita e della morte sulla terra. Questo pensiero mi offriva una veduta aerea della storia: un’ampia rete fatta di un unico filo”.

Ecco, questa immagine della rete fatta da un unico filo mi è spesso tornata in mente in questo periodo perché rende bene la responsabilità del nostro ruolo individuale dentro un tessuto di relazioni; ci dice stare in relazione non è opposto a essere individui, ma anzi, proprio perché esistiamo come singoli, singoli nodi della rete, siamo interconnessi con gli altri.

Credo che l’esperienza che stiamo facendo di questo virus ci stia inchiodando proprio alla nostra condizione di esseri viventi in relazione – tutte: ristrette, online, cliniche, lontane, vicine, immaginate, solitarie, fra persone, economiche, fra età, fra specie…:

  • quando pensiamo “potrei essere venuto in contatto con il virus?” e allora scopriamo la miriade di persone con le quali siamo collegati in pochi passaggi;
  • quando sperimentiamo l’utilità e la fatica dell’isolamento sociale, che ha ricadute così ampie che a volte facciamo fatica perfino a convincerci che sia vero;
  • Quando ci ricordiamo che siamo ammalabili, quindi che potremmo noi stessi avere bisogno delle cure di qualcuno.

Bene, ma cosa possiamo farcene di queste nuove consapevolezze? Io immagino almeno tre strade, tutte e tre umanamente molto comprensibili:

  • Possiamo reagire con rabbia, obbligarci a tornare a vivere con le stesse convinzioni individualista di sempre, che però ora sono accompagnate dalla sensazione di fragilità, quindi, più ci aggrappiamo, più le sentiamo sgretolarsi, quindi più abbiamo paura che possano non reggere;
  • Possiamo rassegnarci, sentirci inermi, in balia del destino, stavolta la paura sarà diversa, più vicina al terrore, il terrore di chi sente che basta un colpo d’aria per cambiare tutto;
  • Possiamo concepire che abbiamo paura, ansia, panico e terrore; possiamo concepire che ci sono alcune cose che di questa quarantena ci piacciono, e che questo, magari, ci fa sentire in colpa; possiamo concepire che siamo arrabbiati perché sentiamo che ci toccherà cambiare il nostro modo di vivere, rimodulare le speranze su cui avevamo puntato. Possiamo dare spazio alla portata emotiva di questa delusione e poi, se ce la sentiremo, quando ce la sentiremo, potremo chiederci:
    Bene, cosa possiamo fare?
    Chi vorrei e chi mi sento e chi ho paura di essere con gli altri?
    Chi mi piacerebbe e chi ho paura che gli altri siano con me?
    E così via, provando insomma a chiederci: in quali altri modi possiamo stare dentro quella rete a filo unico?

Io non so la risposta a queste domande, e credo anzi che in questo periodo circolino fin troppe risposte e ricette su come dovremmo vivere questo tempo difficile. Quello di cui sono convinto, invece, è che questo virus stia precipitato dentro le biografie di tutti noi e che quindi spetti a ognuno di noi porci queste domande e assieme dare spazio a quello che sentiamo, così da permetterci di costruire, da soli e quindi assieme, delle nuove storie, dei nuovi miti e dei nuovi eroi che vorremmo e essere.
Non è semplice, ma può valerne la pena, perché, di fronte a un cambiamento così grande, quello che siamo chiamati a fare è proprio far ripartire le storie: da qui, che tipo di eroi possiamo essere.

Alessandro Busi

*Le precedenti parole de La riscoperta delle parole sono: attesa, quasi, vulnerabilità e come se.

La riscoperta delle parole #4: Come se (di Chiara Centomo)

15 aprile 202015 aprile 20204 commenti

Proseguiamo con La riscoperta delle parole** e anche con gli ospiti. Oggi la parola, o meglio, le parole ce le propone la collega psicologa e psicoterapeuta Chiara Centomo*.
Con lei esploreremo il linguaggio, il ruolo dei modi di parlare nella nostra vita e in particolare, vedremo l’importanza di due parole minuscole ma così grandi: come se.

The_Human_Condition_1935

“La condizione umana” di R. Magritte (1935)

Sin da bambini ci è stato insegnato che esistono due tipi fondamentali di linguaggio, uno letterale e uno metaforico, e che entrambi possono esprimere lo stesso contenuto: Romeo può dichiararsi a Giulietta sia affermando di essere innamorato di lei, sia che le piace da impazzire. La differenza starebbe nel fatto che la modalità letterale (prerogativa della scienza, di un parlare esatto) permette di essere precisi e oggettivi, mentre la metafora sarebbe materia prima di artisti, poeti e sognatori.

Se esaminiamo più a fondo il nostro linguaggio, tuttavia, scopriamo che il parlare quotidiano è zeppo di espressioni e immagini metaforiche utilizzate per consuetudine come se fossero letterali. Pensiamo ad esempio al tempo che si afferra, si usa, si spreca o è lungo, pesante, lento. Le idee maturano, l’amore si conquista, certi pensieri sono difficili da sradicare, le persone possono essere elastiche o rigide e quando sono felici si sentono al settimo cielo, mentre se sono tristi hanno l’umore sotto terra.

È molto probabile che queste espressioni, insieme alle centinaia individuate da Lakoff e Johnson nel loro bellissimo libro “Metaphors we live by”1, non vengano immediatamente ricondotte al “come se” che implicitamente contengono (il tempo come se fosse un oggetto, l’innamoramento come se fosse un assedio, le persone come se fossero dei materiali con certe proprietà fisiche, ecc.). Esse, anzi, appaiono come modi appropriati e veri – letterali, appunto – di comunicare.

Si dice spesso che il modo in cui parliamo contribuisce attivamente a costruire la realtà che viviamo. Può sembrare un’affermazione astratta, fino a quando non consideriamo le metafore. Per esempio, quando pensiamo o parliamo del tempo come se fosse denaro (“in questo rapporto ho investito gli anni più belli della mia vita”, “mi ha rubato minuti preziosi”, “un’intera giornata è andata in fumo“, ecc.) tendiamo a strutturalo, percepirlo e viverlo esattamente in questi termini, ovvero come qualcosa che può essere speso, investito più o meno saggiamente, dissipato, sottratto.

L’analogia viene resa letterale nella nostra esperienza, tanto che in alcune situazioni anche non direttamente legate a una produttività economica ci sentiamo realmente derubati del nostro tempo e ne pretendiamo il risarcimento, o veniamo assaliti dalla frustrazione e dal rimpianto quando abbiamo la sensazione di averlo sprecato.

Utilizzando un’altra metafora potremmo mettere in luce sfumature diverse del modo in cui è possibile vivere il tempo? Decisamente sì. Pensiamo ad esempio a come ci sentiamo quando ci immergiamo in alcuni tipi di meditazione2, dove spesso si invita a fare esperienza del tempo come qualcosa che scorre: come se fosse una corrente che non si può fermare o gestire a proprio piacimento, ma da cui lasciarsi trasportare quietamente imparando, al limite, a governare le proprie vele nel momento presente.

I “come se” che scegliamo per parlare non solo del tempo ma di ciò che più ci sta a cuore diventano parte della nostra esperienza: scegliamoli con cura, perché davvero come dicono Lakoff e Johnosn noi viviamo attraverso le metafore.

Come parliamo, ad esempio, dell’amore? Come se fosse una guerra (“l’ho conquistata“), un oggetto personale (“è mio“), un viaggio (“siamo a un bivio“), un lavoro (“ci vuole impegno“) o magari un sacrificio (lo amo da morire“)?
Quali sono le implicazioni di ognuna di queste immagini? Quali possibilità aprono, e cosa invece non ci permettono di esplorare dell’esperienza dell’amore?
Cosa cambierebbe se, parlando di un problema di coppia, provassimo a utilizzare un altro “come se”?

1 Il libro, pubblicato nel 1980, è disponibile in italiano con il titolo “Metafora e vita quotidiana”.

2 Ad esempio la Mindfulness. pratica di consapevolezza sviluppata a partire dalla filosofia buddista (scevra dalla sua componente religiosa).

*Chiara Centomo, psicologa e psicoterapeuta. Accompagno adulti, adolescenti e coppie in percorsi di psicoterapia, di consulenza e di miglioramento personale; mi occupo inoltre di formazione, orientamento e divulgazione scientifica. I miei interessi di ricerca sono principalmente il rapporto corpo-mente e il linguaggio.
Contatti: chiaracentomo@gmail.com
Sito: http://www.chiaracentomo.com
Pagina Facebook: Chiara Centomo Psicologa Psicoterapeuta

**Le precedenti parole sono state: attesa, quasi, vulnerabilità.

 

La riscoperta delle parole #2: quasi

1 aprile 202030 marzo 20206 commenti

Schermata 2020-03-29 alle 19.14.28

frame tratto da “L’amica geniale – Storia del nuovo cognome”

Qualche settimana fa è finita la seconda stagione della serie L’amica geniale, tratta dall’omonimo romanzo – quadrilogia – della scrittrice misteriosa Elena Ferrante.
Per chi non la conosce, L’amica geniale è la storia dell’amicizia fra Elena e Lila, un’amicizia lunga una vita e che attraversa il dopoguerra italiano e arriva quasi a oggi.
La seconda stagione racconta l’adolescenza e la prima età adulta delle protagoniste, quindi il costruirsi di due percorsi di vita distanti: Elena studia, Lila si sposa sedicenne e va subito a lavorare; Elena frequenta la Normale di Pisa, Lila si ferma a Napoli, apparentemente vittima di un destino sociale già scritto.
Nonostante queste disparità, che ci potrebbero far pensare che sia Elena quella, diciamo così, di successo, non si argina la sua sensazione di sentirsi meno di Lila.
Nell’ultima puntata, c’è un monologo in cui spiega questa sua sensazione:

All’improvviso mi resi conto che tutta la mia vita era un “quasi”.
Ce l’avevo fatta? Quasi.
Mi ero strappata a Napoli e al rione? Quasi.
Avevo amiche e amici nuovi, che venivano da ambienti colti? Quasi.
Di esame in esame ero diventata una studentessa ben accolta dai professori che mi interrogavano? Quasi.
Dietro tutti quei quasi, mi sembrò di vedere come stavano le cose. Avevo ancora paura e sentivo che da qualche parte, Lila, come sempre, era senza “Quasi”.

Chi può dire di non capire Elena? Quel sentirsi insufficiente rispetto al percorso che sta facendo, e più ancora rispetto alle aspettative che aveva per sé.
E chi può dire di non comprendere quel paragone rispetto a una persona che le sembra più completa di lei?
Tante volte, in terapia, mi è capitato di sentirmi dire “mi sembra che gli altri siano più completi di me, che sappiano vivere meglio di me”. Chi può dire di non averlo mai pensato?

Allora mi chiedo: perché ci preoccupa tanto essere quasi?
A leggere quello che dice Elena, sembra che sentirsi quasi sia una colpa, rispetto al dovere di sentirsi finita. Ma perché vogliamo sentirci completi quando ancora ne abbiamo da vivere?

Quasi è una sensazione che sperimentiamo anche in questi giorni in cui ci sentiamo di vivere, quasi. E questo ci fa soffrire perché, come dicevamo parlando di attesa, non ci piace vivere in un tempo diminuito, tanto più quando questo tempo si fa e si prospetta lungo.

Allora possiamo provare a muovere il punto di vista e porci delle domande come:
in cosa mi sento quasi?
In cosa mi sta bene sentirmi quasi? In cosa lo odio?
Qual è la storia di questo mio quasi?

Potremmo scoprire che sentirci di non aver completato un percorso – metaforico o concreto che sia – ci può aprire la possibilità di proseguire, oppure di cambiare, anche se ci sembra difficile, o addirittura impossibile.
Potremmo scoprire, come sarà per Elena, che sentirci quasi ci può portare ad avere meno punti assoluti, magari più paura, ma anche più tenacia per dare forma alle nostre strade e relazioni, per quanto in costruzione, per quanto quasi.

Alessandro Busi

*La prima parola della rubrica “La riscoperta delle parole” la trovate qui: attesa.

La riscoperta delle parole #1: Attesa

19 marzo 202019 marzo 20207 commenti

I momenti di crisi ci impongono di ripensare il nostro modo di vivere: le abitudini più piccole come le aspirazioni più grandi.
La sensazione è quella di perdere per strada speranze, aspettative, certezze, quindi di faticare a immaginare il futuro.
È come se le nostre storie non funzionassero più e le parole che eravamo abituati a usare perdessero di significato, mentre riemergono altre parole, paurose, ingombranti e che pensavamo fossero – per noi – dimenticabili: pandemia, quarantena, coprifuoco.

Questa rubrica La riscoperta delle parole nasce proprio da lì: per dare un senso nuovo alle parole che già  conosciamo, quindi costruire quelle storie che ancora non sappiamo raccontare e ricominciare a immaginare il futuro.

dog-658206_1920

La riscoperta delle parole #1: Attesa

L’attesa è il tempo nel quale le cose sembrano non succedere.
L’attesa è da ingannare, si dice. Seneca, in La brevità della vita, dice invece che l’attesa è il maggiore ostacolo al vivere.
Di contro, c’è chi sostiene che l’attesa sia la bilancia sulla quale pesare la portata dei sentimenti, che sia dove si rivelano le cose importanti.
Poi c’è chi dice che è la capacità di stare nell’attesa sia la virtù dei saggi, mentre per altri è il rifugio dei pavidi.

Le persone si sono storicamente scontrate sul significato della parola attesa, ma, che la si veda come qualcosa da evitare oppure come una quasi auspicabile difficoltà da affrontare, resta l’idea di fondo: l’attesa è un tempo sospeso, in cui, l’esistenza sembra mettersi in pausa, prima di ripartire nel momento deciso: l’arrivo dell’amore, le ferie, la nascita di un figlio, l’inizio di un nuovo lavoro, la fine dell‘isolamento forzato.

Il problema è che, per quanto ci proviamo, noi non possiamo mettere in pausa la nostra vita. Anzi, proprio la sensazione di essere in sospeso ci genera sofferenza, perché sentiamo il tempo dell’attesa come tempo meno significativo e a nessuno piace che il proprio tempo non sia significativo. Come se l’unica domanda possibile fosse: quanto manca?

Allora mi dico, proviamo a cambiare domanda.
Se provassimo a chiederci: cosa sta succedendo dentro questa attesa?
E poi: come sto dentro questa attesa?
E poi: chi vorrei assieme a me? E in che modo vorrei che stessimo assieme?
E poi ancora: dove si posiziona questa attesa dentro la storia della mia vita?

Potremmo scoprire che l’attesa non è un tempo sospeso, ma è un tempo pieno di noi, con dei vincoli più stringenti, che non ci aspettavamo, che non volevamo, ma con i quali dobbiamo fare i conti.
Potremmo scoprire che stiamo soffrendo, che siamo in ansia, che è doloroso. Potremmo sorprenderci, trovare attività da fare, magari recuperare passioni messe da parte negli anni; oppure potremmo scoprire che di reagire, di fare miriadi di cose non ne abbiamo proprio voglia e che preferiamo anche lasciarci prendere dallo sconforto (è forse vietato farsi prendere dallo sconforto?).
Potremmo scoprire, insomma, che non è necessario ingannare l’attesa né viverla come una prova da superare per arrivare alla saggezza, ma che, come ogni tempo della nostra vita, l’attesa è un tempo con dei vincoli dentro i quali possiamo provare a scegliere come stare.

Alessandro Busi
Padova, Mestrino e su Skype

Le parole per un anno nuovo

20 dicembre 201618 marzo 20201 commento

scarabottolo

illustrazione di Guido Scarabottolo

In questi giorni stavo riflettendo su un possibile articolo per chiudere questo 2016. Cosa dire? Cosa scrivere?

Spesso le feste, con annessa la fine dell’anno, sono un periodo di bilanci, personali e relazionali. Scrivere di questo? Mh, non mi convinceva.

Riflettendoci ancora, mi sono imbattuto in queste righe tratte dal libro “Passeggeri Notturni” di Gianrico Carofiglio*. Recitano così:

“Ipocognizione è un vocabolo difficile, poco usato ma piuttosto importante. Indica la situazione di chi non possiede le parole […] di cui ha bisogno per poter gestire la propria vita interiore e i rapporti con gli altri”

L’autore prosegue raccontando di uno studioso, Robert Levy [antropologo e psichiatra], che coniò il termine “ipocognizione” durante i suoi studi a Tahiti, in cui si accorse che le persone erano spesso sguarnite di fronte alla tristezza, o alla depressione, perché non avevano parole per identificarla:

“naturalmente la conoscevano e la provavano, ma non avevano per essa un concetto e un nome […] Non erano in grado di nominare, e quindi di elaborare la fragilità, la tristezza, l’angoscia”.

Quanto è importante a volte saper dire: sono triste, sono felice, sono arrabbiato?

Quanto, altre volte, sentiamo quelle stesse parole che si fermano, o decidiamo di fermarle, prima di poter uscire dalle labbra, tenendole quindi come un pensiero tutto nostro?

E quanto, altre volte ancora, cerchiamo delle parole diverse per noi stessi, per le nostre relazioni, e fatichiamo a trovarle?

Così ho trovato di cosa mi sarebbe piaciuto scrivere per questa fine dell’anno: delle parole che usiamo per raccontarci, per viverci.

E mi piace quindi concludere questo breve articolo, oltre che con gli auguri di rito a tutti, con una domanda:

quali parole vogliamo per il nostro nuovo anno?

Alessandro Busi
Mestrino, Padova e su Skype

* Le citazioni sono tratte da: “Passeggeri Notturni” di Gianrico Carofiglio, edito da Einaudi (2016).

CONTATTI

3275389290 alessandrobusi.psy@gmail.com

Padova

Via Altinate 128, 35121, Padova

Online

Su Skype 

Alessandro Busi Psicoterapeuta Padova

Alessandro Busi Psicoterapeuta Padova
Dott. Alessandro Busi psicologo-psicoterapeuta

Articoli recenti

  • Finire e cambiare: guardando al tempo con gli occhi dei camaleonti.
  • Quando il gatto non c’è?
  • La riscoperta delle parole #12: Storia
  • Se ci deludessimo…
  • Viktor Frankl, Uno psicologo nei lager

Commenti recenti

La riscoperta delle… su La riscoperta delle parole #8:…
La riscoperta delle… su La riscoperta delle parole #7:…
La riscoperta delle… su La riscoperta delle parole #6:…
La riscoperta delle… su La riscoperta delle parole #5:…
La riscoperta delle… su La riscoperta delle parole #4:…

Archivi

  • dicembre 2022
  • luglio 2022
  • marzo 2021
  • febbraio 2021
  • gennaio 2021
  • dicembre 2020
  • novembre 2020
  • ottobre 2020
  • settembre 2020
  • luglio 2020
  • giugno 2020
  • Maggio 2020
  • aprile 2020
  • marzo 2020
  • febbraio 2020
  • gennaio 2020
  • novembre 2019
  • ottobre 2019
  • agosto 2019
  • giugno 2019
  • dicembre 2018
  • ottobre 2018
  • settembre 2018
  • febbraio 2018
  • ottobre 2017
  • settembre 2017
  • marzo 2017
  • gennaio 2017
  • dicembre 2016
  • settembre 2016
  • febbraio 2016
  • gennaio 2016

Categorie

  • blog di psicologia
  • spunti di riflessione

Meta

  • Registrati
  • Accedi
  • Flusso di pubblicazione
  • Feed dei commenti
  • WordPress.com

Articoli recenti

  • Finire e cambiare: guardando al tempo con gli occhi dei camaleonti.
  • Quando il gatto non c’è?
  • La riscoperta delle parole #12: Storia
  • Se ci deludessimo…
  • Viktor Frankl, Uno psicologo nei lager

Termini d’uso e privacy

  • TERMINI D’USO E PRIVACY
Blog su WordPress.com.
  • Segui Siti che segui
    • Alessandro Busi Psicoterapeuta Padova
    • Hai già un account WordPress.com? Accedi ora.
    • Alessandro Busi Psicoterapeuta Padova
    • Personalizza
    • Segui Siti che segui
    • Registrati
    • Accedi
    • Segnala questo contenuto
    • Visualizza il sito nel Reader
    • Gestisci gli abbonamenti
    • Riduci la barra
 

Caricamento commenti...
 

    Privacy e cookie: Questo sito utilizza cookie. Continuando a utilizzare questo sito web, si accetta l’utilizzo dei cookie.
    Per ulteriori informazioni, anche sul controllo dei cookie, leggi qui: Informativa sui cookie