
Illustrazione “Youtube” di Giulio Castagnaro
Un tema sempre più presente oggigiorno è la dipendenza da internet.
Di solito, per parlarne, si cerca la linea che separa l’uso normale dall’uso patologico delle nuove tecnologie: definire il giusto tempo da spendere online. Questo nasce da un’idea: il tempo giusto è quello della “vita reale”, mentre quello speso online è “tempo perso/speso male”.
Non mi interessa mettere in discussione questo modo di vedere, ma mi chiedo: è utile per comprendere ciò che vive una persona online? È utile per comprendere il vissuto di una persona che potremmo definire dipendente da internet?
Quello che vi propongo è di provare a cambiare sguardo e concentrarci sulle relazioni e sulla comprensione delle storie personali. Partiamo così: come mai una persona preferisce passare sempre più tempo online?
Immaginiamo una storia*.
Andrea è un ragazzo di 23 anni, alto, moro, timido, direbbe lui di sé. Nella sua giovane vita alterna un rapporto di odio e amore con le nuove tecnologie. Se in certi periodi dell’infanzia è quello che incita gli amici a uscire di casa e mollare i videogiochi, in adolescenza si concede lunghe serate davanti al pc: soprattutto sui social e in chat.
Quello che più gli piace è riuscire a conoscere persone. Per quanto non lo racconti a nessuno, in chat si sente bene: sente di potersi raccontare al meglio, di poter dire la propria idea senza vergognarsi, di poter mostrare interesse anche per le ragazze, senza essere impacciato e goffo come nella vita di tutti i giorni.
Dopo gli anni delle scuole superiori, Andrea inizia a lavorare come magazziniere in un negozio di grande distribuzione, mentre gli amici se ne vanno all’università e si sparpagliano in tante città diverse. Continuano a vedersi, certo, ma le cose cambiano. Spesso pensa che anche lui avrebbe potuto continuare gli studi, ma quando ci pensa sente un brivido che gli sale lungo la schiena e gli dice che non sarebbe riuscito, che avrebbe fatto la figura del cretino, che è meglio così. E in quel così, Andrea scopre la propria solitudine, che ormai sente sempre più ineluttabile: fatica a parlare con gli altri (genitori, compagni di calcetto, amici…) e gli sembra l’unica sua scelta sia quella di rassegnarsi. Dico, gli sembra, perché c’è ancora un posto nel quale Andrea si sente compreso, le chat, i social network, i commenti; più in generale, la sua vita online. Lì nessuno gli parla sopra e a chi lo offende sa rispondere per le rime. Nessuno lo guarda con quello sguardo pietoso che conosce fin troppo bene. Lì nessuno se ne va, nessuno rimane, e, quando le cose non vanno come vuole lui, può chiudere la pagina e mettersi in gioco da qualche altra parte.
Sono i suoi genitori a non capire! Sono loro a urlargli che esagera, che dovrebbe uscire, trovarsi una fidanzata: ma cosa ne sanno loro?! E come se non bastasse, ci si mettono anche gli amici, che lo invitano a conoscere i nuovi compagni universitari e quando lui rimanda e rimanda e rimanda, si offendono pure. Solo nelle chat le persone lo capiscono. Quando lui racconta quello che prova – quello che, quando vorrebbe confessarlo agli amici, sente un grumo che gli ferma le parole in gola – i suoi amici telematici, gli rispondono con parole ed emoticon che lo fanno sentire meno solo e tanto gli basta per preferire quel tipo di relazioni a quelle di tutti i giorni.
Non lo fa apposta. A chi gli chiede, non sa rispondere, e quasi non se ne accorge che, lavoro a parte, il resto del tempo lo passa al computer, o al telefono, ma soprattutto che nel resto del tempo è scontroso e ha quasi paura che gli altri lo cerchino.
Di nuovo, sono i genitori ad accorgersi che qualcosa non va e a convincerlo, non senza difficoltà (“Mica sto facendo del male a nessuno!”, dice lui durante un litigio, “Ma cosa te ne fai della tua vita?”, gli ribatte sua madre) a iniziare una psicoterapia. All’inizio, lui è molto contrariato e si impegna a raccontare allo psicologo che va tutto bene, tutto benissimo, tutto troppo, troppo bene. Troppo bene, anche per lui, che dopo aver tastato quella strana relazione come si fa con la punta dei piedi prima di tuffarsi, e aver deciso che avrebbe potuto fidarsi, inizia a portare le sue paure, il suoi desideri, i timori che lo immobilizzano quando è con gli altri, il sogno di avere una vita come quelle degli altri, che gli sembrano così irraggiungibili. Assieme al suo psicoterapeuta stanno in questo suo dolore e provano a comprenderlo. Provano anche a comprendere chi siano e come siano queste vite così perfette da cui lui si immagina circondato, ma più di tutto, riscoprono la paura, che smette di essere un raggio congelante come nei film dei supereroi. Andrea fraternizza con i suoi brividi e, piano, piano, si concede di avere la paura come compagna di viaggio, che forse non vorrebbe, ma che non lo blocca più. Andrea scopre quindi che, come tutti, non è perfetto, ha delle goffaggini, ma scopre anche che questi aspetti di sé non dispiacciono agli altri, e nemmeno più a se stesso. Andrea, come tutti oggi, passa ancora tanto tempo online, ma ogni volta che decide di stare a casa invece di fare altro, o che decide di chiudere il pc e uscire, sa che ha tanti modi di stare assieme agli altri, o di stare da solo, e che la sua vita ha nuove strade da percorrere oltre alla rassegnazione.
Alessandro Busi
Mestrino, Padova e su Skype
*Ogni fatto raccontato e personaggio inserito è frutto dell’immaginazione dell’autore e non c’è nessun riferimento alla realtà.