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Alessandro Busi Psicoterapeuta Padova

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La riscoperta delle parole #2: quasi

1 aprile 202030 marzo 2020
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frame tratto da “L’amica geniale – Storia del nuovo cognome”

Qualche settimana fa è finita la seconda stagione della serie L’amica geniale, tratta dall’omonimo romanzo – quadrilogia – della scrittrice misteriosa Elena Ferrante.
Per chi non la conosce, L’amica geniale è la storia dell’amicizia fra Elena e Lila, un’amicizia lunga una vita e che attraversa il dopoguerra italiano e arriva quasi a oggi.
La seconda stagione racconta l’adolescenza e la prima età adulta delle protagoniste, quindi il costruirsi di due percorsi di vita distanti: Elena studia, Lila si sposa sedicenne e va subito a lavorare; Elena frequenta la Normale di Pisa, Lila si ferma a Napoli, apparentemente vittima di un destino sociale già scritto.
Nonostante queste disparità, che ci potrebbero far pensare che sia Elena quella, diciamo così, di successo, non si argina la sua sensazione di sentirsi meno di Lila.
Nell’ultima puntata, c’è un monologo in cui spiega questa sua sensazione:

All’improvviso mi resi conto che tutta la mia vita era un “quasi”.
Ce l’avevo fatta? Quasi.
Mi ero strappata a Napoli e al rione? Quasi.
Avevo amiche e amici nuovi, che venivano da ambienti colti? Quasi.
Di esame in esame ero diventata una studentessa ben accolta dai professori che mi interrogavano? Quasi.
Dietro tutti quei quasi, mi sembrò di vedere come stavano le cose. Avevo ancora paura e sentivo che da qualche parte, Lila, come sempre, era senza “Quasi”.

Chi può dire di non capire Elena? Quel sentirsi insufficiente rispetto al percorso che sta facendo, e più ancora rispetto alle aspettative che aveva per sé.
E chi può dire di non comprendere quel paragone rispetto a una persona che le sembra più completa di lei?
Tante volte, in terapia, mi è capitato di sentirmi dire “mi sembra che gli altri siano più completi di me, che sappiano vivere meglio di me”. Chi può dire di non averlo mai pensato?

Allora mi chiedo: perché ci preoccupa tanto essere quasi?
A leggere quello che dice Elena, sembra che sentirsi quasi sia una colpa, rispetto al dovere di sentirsi finita. Ma perché vogliamo sentirci completi quando ancora ne abbiamo da vivere?

Quasi è una sensazione che sperimentiamo anche in questi giorni in cui ci sentiamo di vivere, quasi. E questo ci fa soffrire perché, come dicevamo parlando di attesa, non ci piace vivere in un tempo diminuito, tanto più quando questo tempo si fa e si prospetta lungo.

Allora possiamo provare a muovere il punto di vista e porci delle domande come:
in cosa mi sento quasi?
In cosa mi sta bene sentirmi quasi? In cosa lo odio?
Qual è la storia di questo mio quasi?

Potremmo scoprire che sentirci di non aver completato un percorso – metaforico o concreto che sia – ci può aprire la possibilità di proseguire, oppure di cambiare, anche se ci sembra difficile, o addirittura impossibile.
Potremmo scoprire, come sarà per Elena, che sentirci quasi ci può portare ad avere meno punti assoluti, magari più paura, ma anche più tenacia per dare forma alle nostre strade e relazioni, per quanto in costruzione, per quanto quasi.

Alessandro Busi

*La prima parola della rubrica “La riscoperta delle parole” la trovate qui: attesa.

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