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Alessandro Busi Psicoterapeuta Padova

Ogni vita merita un romanzo

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Tag: pscioterapia online

Quando il gatto non c’è?

29 luglio 202229 luglio 2022Lascia un commento

Qualche giorno fa mi sono imbattuto in una vignetta di Christopher Weyant. Un topo dice all’altro, Odio ammetterlo ma, ora che il gatto è fuori, non so cosa fare con il mio tempo libero.
Il richiamo di Weyant è chiaramente al famoso detto dei topi che ballerebbero in assenza del gatto, ma sembra chiedere: siamo sicuri che succeda proprio così?
Non strappa il sorriso solo per il gioco con il modo di dire, ne richiama uno più amaro perché quella domanda sembra rivolgersi direttamente al lettore: quando il tuo gatto non c’è, cosa fai?
Potremmo riformularla domanda così: quando quello che consideri il tuo gatto sarà fuori, cosa farai?

La vignetta di Weyant apparsa nel numero del 25/7/22 del New Yorker

Se ci pensiamo, è un’esperienza comune quella di dirci che quando una data situazione smetterà di esserci, allora potremo iniziare a fare quello che desideriamo.
Quando sarò in ferie, farò.
Quando avrò abbastanza soldi, farò.
Quando mi sposerò, quando compirò trenta/quaranta/sessant’anni, quando avrò un figlio, quando avrò il lavoro xy… solo allora potrò.
È un’esperienza comune sentire di essere dentro dei vincoli percepiti come troppo stretti, così stretti da impedire ogni movimento nel presente, se non nella possibilità di fantasticare. Fantasticare serve a immaginare il possibile che sarà possibile, serve a pianificare, o anche solo a dare corpo mentale a dei desideri che rimarranno tali; di certo permette di spostare dentro un futuro inaccessibile alcune cose che vorremmo e che al contempo ci spaventano, non per nostra volontà, ma – per stare nella vignetta – per la presenza del gatto.

Questo funziona fino a che succede qualcosa.
Alle volte è Il gatto che se ne va (es. le ferie iniziano, i soldi ci sono, il matrimonio avviene), altre volte arriva uno scossone nella vita – una pandemia, un compleanno… ognuno ha le proprie pietre miliari – che trasformano il modo di vivere il tempo, per cui quello spostamento nel futuro, da rassicurante diventa insostenibile.
Le ragioni per cui rimandavamo ci sembrano meno significative.
La prospettiva del domani toglie il respiro perché è diventata fattibile e perciò irraggiungibile.
D’altro canto, anche l’idea di scegliere quella cosa rimandata per tanto tempo è a sua volta insostenibile, perché, se la rimandavamo, avevamo – più e meno consapevolmente – delle ragioni: magari ci spaventano i cambiamenti che potrebbe implicare, quelli che potrebbe portare nelle relazioni che viviamo, come si sconvolgerebbe la nostra vita.
Quindi, quando il gatto non c’è, possiamo trovarci dentro esperienze di ansia, dentro l’insofferenza per la ripetizione di comportamenti che non ci piacciono e che non troviamo più ragionevoli, possiamo chiuderci, sentendo di non avere alternative da percorrere.

Ma allora basta agire!
Questa è la reazione che viene più facile pensare.
Se non ti piace come vivi, cambia!
Spesso troviamo online pagine che ci danno ingiunzioni di questo tipo. Liberati delle persone che non ti piacciono! Fai solo quello che desideri! Non procrastinare! Non rimandare! e via dicendo.
Non entro nella bontà in sé delle idee, metto una domanda: se fosse così facile, non lo faremmo già?
Se il topo della vignetta avesse facilità a scegliere di ballare o fare quello che desidera o capire quello che desidera, non parlerebbe con l’amico con quell’espressione allarmata più che preoccupata, banalmente: agirebbe.
Allo stesso modo ognuno di noi – più e meno consapevolmente – percorre la strada che trova più percorribile per sé, che non vuol dire sia sempre quella che desidera, o che aveva sognato, ma quella nella quale sente di poter camminare in quel momento della sua vita, a partire dal suo modo di vedere il mondo, le relazioni, se stesso.

Illustrazione di Gordon Johnson

Spesso succede che in psicoterapia arrivino persone che si sentono strette dentro questa morsa: da un lato, una vita così tanto spesa ad aspettare che il gatto uscisse da non sapersi pensare in modo diverso da “persona che aspetta che il gatto se ne vada”; dall’altro, sentirsi colpevole di non riuscire a seguire i buoni consigli ricevuti e i desideri che sente propri: è vero, sarebbe così semplice, perché non ci riesco?
E questa morsa si alimenta con il tempo che passa, che giorno dopo giorno dà vigore alle sensazioni di incapacità e di mancanza di alternative che dicevamo prima.
Per questa ragione, il lavoro in terapia può servire come spazio per capire cosa sta succedendo, dare rilevanza ai propri paure-speranze-desideri-rabbie…, recuperare il senso più ampio possibile che ha per noi stare in una situazione anche se fa soffrire e aver costruito i compromessi della nostra vita, ricostruire il gatto e la sua ossatura per dare significato al legame che abbiamo vissuto con lui negli anni, comprendere cosa immaginiamo per noi e per le relazioni che amiamo quando pensiamo di fare cose diverse; e da lì, se e quando sarà possibile, con i tempi che ognuno sente per sé percorribili, prendere in mano queste scelte e chiederci: ok, il gatto ha fatto parte della mia vita, ha avuto un ruolo significativo, anche con la sua presenza ho scritto questa storia. Ora che non c’è più, cosa mi sento di fare?

Alessandro Busi
Psicologo e psicoterapeuta
a Padova, Mestrino e online

La riscoperta delle parole #12: Storia

14 marzo 202112 marzo 2021

In questi mesi mi è successo di ascoltare alcuni podcast dello storico Alessandro Barbero.
Il modo che usa per avvicinarci agli eventi storici è quello di focalizzarsi sul senso che aveva per le persone dell’epoca comportarsi in quello specifico modo. È una precisazione che fa spesso: non pretendete di guardare con gli occhi di oggi gli eventi e le persone del passato, se li si volete capire.
Perché Cavour spinse tanto per l’Unità d’Italia? Perché i soldati italiani accettarono di combattere a Caporetto? Perché scoppiò la rivoluzione francese?
Se vogliamo capirli dobbiamo provare a metterci nei desideri di Cavour, nelle aspettative dei soldati sul fronte della Grande Guerra, nella visione del mondo e della società che c’era in Francia alla fine del ‘700.

***

Una sensazione che molte persone raccontano in psicoterapia è questa: la paura di aver sprecato il proprio tempo, di non aver scelto quello che volevano ma, talvolta quello che dovevano, talvolta quello che la vita faceva capitare loro sotto i piedi.
Questa sensazione porta con sé un rosario di altre sensazioni che vanno dall’incolparsi, al sentire il peso del tempo che passa, al pensare di aver sbagliato, o peggio ancora di avere qualcosa di intrinsecamente sbagliato: perché tutti gli altri sono capaci di vivere e io no?
Questa visione apre purtroppo a uno scenario difficile da scardinare, perché è lo scenario nel quale sentiamo di non avere la possibilità di incidere in prima persona in quello che sembra essere un destino già scritto.

Un’altra sensazione ricorrente in terapia è però anche lo stupore; lo stupore di prendersi del tempo per chiedersi: ma io, questa vita, come l’ho costruita?
Lo stupore, a volte piacevole e a volte doloroso, di guardare al proprio tempo, alle emozioni provate, ai bivi di fronte ai quali ci si è trovati, e ridare senso alle scelte fatte, che magari non erano quelle più desiderate, ma di certo erano quelle più sensate in quel momento.
In questo modo, infatti, possiamo scoprire che non abbiamo vissuto la vita dei sogni, ma quella che, dentro tutte le asperità che ci sono toccate, ci siamo conquistati. Le occasioni sprecate potrebbero iniziare ad avere un senso, e così il tempo lasciato andare, le scelte che ci apparivano così sbagliate.
Allo stesso modo possiamo capire anche quello che ci sentiamo di fare e di non fare oggi, quello che vogliamo e quello che ancora ci fa troppa paura; e da lì immaginare strade alternative e aprirci, se e come ce la sentiamo, a nuove possibilità.
Perché, se per comprendere la peste del ‘300, come dice Barbero, dobbiamo entrare negli occhi di chi viveva all’epoca, come possiamo pretendere di capire la nostra vita senza dare valore alla nostra storia?

Alessandro Busi
psicologo e psicoterapeuta
a Padova, Mestrino e su Skype

Le precedenti parole riscoperte sono: attesa, quasi, vulnerabilità, come se, relazione, virtuale, anche, compromesso, concretezza, crisi e paura.

Se ci deludessimo…

15 febbraio 202114 febbraio 2021
Immagine di Robert Indiana

Immaginiamo una storia di coppia.
Si sono incontrati cinque anni fa e qualcosa li ha reciprocamente attratti. Sono usciti assieme, si sono conosciuti, si sono piaciuti. L’uno era esattamente come l’altro lo desiderava; un impegno reciproco che cresceva man mano che si conoscevano.
Nei loro termini, desideravano il bene l’uno dell’altra.
Se un giornalista, uno di quelli che fanno le interviste in strada sotto San Valentino, avesse chiesto loro, qual è il segreto del vostro amore?, avrebbero risposto, senza pensarci troppo, che il loro segreto era esserci per l’altro, nel miglior modo possibile.
Pronunciando quelle parole, a uno dei due sarebbe scesa una goccia di sudore, assieme a un pensiero: ma se per una volta non ci fossi, cosa succederebbe?
Questo piccolo pensiero, questa dozzina di parole, avrebbe generato un vortice che avrebbe ruotato attorno a una domanda ancora più grande: se non fossi come si aspetta, cosa ne sarebbe di noi?

Questa è una domanda che spesso emerge nei percorsi di psicoterapia, non solo riferita ai partner, ma alle persone rilevanti della vita – familiari, amici, amanti, figli – perché, se da un lato è comprensibile e comune il desiderio di soddisfare i desideri di chi abbiamo accanto, dall’altro corriamo il rischio di convincerci che l’altra persona, se smettiamo di essere così soddisfacenti, non abbia altra ragione per stare con noi.
Beh, facile, allora non bisogna soddisfare i desideri degli altri!, si potrebbe dire.
Certo, anche questa è una possibilità, ma perché? Perché dovremmo privarci del piacere di far felice una persona a cui vogliamo bene? Per la paura poi di deludere le aspettative che potrebbe farsi? E poi ancora: se lo facciamo, avremo delle buone ragioni per cui lo facciamo, no?
Vabbè, ma allora, cosa bisogna fare?!

***

C’è una poesia della poetessa Alessandra Racca che recita così:

“Nico, mi fai una frangia cortissima?”
“Neanche se mi paga.”

Come il mio parrucchiere
vorrei mi trattasse la vita:
forbici in mano
e idee chiare
su come farmi stare bene
malgrado me.

[Alessandra Racca, Poesie antirughe, Neo edizioni, 2011]

Purtroppo (ma anche per fortuna), nelle relazioni, per quanto possa piacerci l’idea di sapere a priori cosa è giusto o sbagliato fare, o che qualcuno possa saperlo per noi, ci tocca fare come gli scienziati: provare, sbagliare, riprovare, essere soddisfatti, essere insoddisfatti, riprovare ancora, e via dicendo.
In questo modo possiamo vedere che ci sono momenti in cui desideriamo accontentare chi abbiamo accanto e altri in cui proprio non ci va; possiamo incontrare la paura di legarci, della responsabilità, oppure la paura di essere soli; possiamo scoprire la paura di deludere, il terrore di essere abbandonati, per cui ci ritroviamo a fare cose che magari nemmeno ci piacciono, ma è quello che sentiamo di poter fare; possiamo scoprire, però anche, che, se ci diamo la possibilità di deluderci e di deludere, ci sono altre ragioni che ci tengono assieme a quella persona, che sta con noi, non tanto – non solo – per quello che facciamo per lei, ma proprio per chi siamo; possiamo scoprire che è arrivato il momento di chiudere, oppure di ripartire da una domanda diversa, che ci apra a nuove possibilità; una domanda come: Se ci deludessimo, chi altro potremmo essere assieme?

Alessandro Busi
psicologo e psicoterapeuta
a Padova, Mestrino e su Skype

La riscoperta delle parole #9: Concretezza

13 luglio 20209 luglio 2020

Una cosa che mi è capitato di sentirmi dire varie volte è che la psicologia e la psicoterapia non siano concrete.
La medicina è concreta, l’ingegneria di certo, l’ecologia perfino, ma la psicologia e la psicoterapia non possono esserlo perché si occupano di pensieri e di emozioni, di come diamo senso a quello che viviamo e di come possiamo cambiare. 

Questo modo di vedere si tramuta per molti in uno scoglio non da poco, quando sentono che qualcosa non va nelle proprie vite, ma sentono anche di non poter chiedere un aiuto perché: insomma, non è mica un problema concreto!

Allora mi chiedo: se sono concreti il mondo in cui ci troviamo, le case che abitiamo e le auto che guidiamo; se queste case e questo mondo li viviamo con dei corpi concreti anche loro… come è possibile che l’esperienza che facciamo di tutte queste cose non sia concreta?

Non è concreta l’emozione che proviamo quando nasce o quando muore una persona che amiamo? Non è concreto quell’amore? 
Ma pensiamo anche all’odio, al rancore, alla solitudine, alla paura di fallire e al desiderio di rischiare, all’immaginazione dei progetti di vita e all’ostinazione nel portarli avanti e al dolore nel doverli modificare e alla soddisfazione nel ritrovarli cambiati ma comunque nostri.

Ecco perché la parola che voglio riscoprire è concretezza, perché ci meritiamo di utilizzarla in modo più ampio, per esempio chiedendoci: come cambierebbe il mio modo di vivere le emozioni e i pensieri se iniziassi a dirmi che sono concreti?

Sono convinto che, se può essere utile nei momenti di serenità, avrebbe un effetto tanto più forte quando siamo in crisi, perché potremmo quantomeno smettere di incolparci di stare male per qualcosa che è solo nella nostra testa, o di dirci che si tratta solo di emozioni e idee, mentre potremmo iniziare a dirci: ok, sono nella mia testa e proprio perché sono nella mia testa e con la mia testa io do senso a quello che vivo, allora è importante che me ne occupi.

Non solo. Sono anche convinto che vedere concretezza in quello che pensiamo e proviamo, ce ne farebbe sentire maggiormente anche la responsabilità, per cui non potremmo più accantonare, ma ci troveremmo più facilmente a chiederci: come voglio e mi sento di cambiare? In che direzione?

Perché alla fine, se concreta è l’esperienza che viviamo, che è fatta dal mondo che ci circonda, dal corpo che siamo, dalle relazioni che abitiamo, dai punti di vista che assumiamo, dalle emozioni che proviamo, dai desideri che custodiamo, allora concreti diventano anche cambiamenti a cui ci possiamo affacciare.

Alessandro Busi
psicologo e psicoterapeuta
Padova, Mestrino e su Skype

Le precedenti parole riscoperte sono: attesa, quasi, vulnerabilità, come se, relazione, virtuale, anche e compromesso.

La riscoperta delle parole #8: Compromesso

23 giugno 202022 giugno 20201 commento

Guardando i documentari molti restano abbagliati dalla natura: la perfezione dei collegamenti neuronali, delle articolazioni del ghepardo, dell’esca luminescente del melanoceto…
Non è incredibile che tutto si incastri così bene? Sì, ma è perfetto?
L’idea di Telmo Pievani, autore di Imperfezione. Una storia naturale, è che la natura non sia perfetta, ma sia espressione di uno dei percorsi possibili, frutto di continui aggiustamenti, ridefinizioni, errori, messe in discussione e rifondazioni. Per questo, la metafora che lui propone è quella della natura come artigiano, che non insegue la perfezione, ma fa quello che può, con i materiali e le capacità che ha.
Prendiamo la giraffa. Non è affascinante? Certo, ma è perfetta?

“Nella giraffa il nervo laringeo ricorrente, che è cruciale essendo coinvolto nella deglutizione e nelle vocalizzazioni, anziché andare direttamente dal cervello alla laringe come qualsiasi ingegnere lo disegnerebbe, fa un percorso lunghissimo. Sfiora la laringe (la sua meta) ma non si ferma, scende lungo tutto il collo seguendo il nervo vago, passa sotto l’aorta dorsale vicino al cuore e risale di nuovo lungo tutto il collo fino alla laringe dopo aver percorso quasi quattro metri! Non ha alcun senso. È un maldestro compromesso tra il più recente allungamento del collo per selezione naturale e il più antico retaggio della conformazione del nervo vago dei pesci.”

[T. Pievani “Imperfezione. Una storia naturale”, Raffaello Cortina editore]

Ecco quindi la parola che voglio riscoprire oggi: compromesso.

Nonostante il compromesso caratterizzi la storia dell’evoluzione – piena di sfide e di coraggio nell’affrontarle; piena di organi creati, abbandonati e poi riutilizzati; piena di prove ed errori – è una parola a cui abbiamo dato una connotazione negativa: non per niente diciamo scendere a compromessi, mica salire a compromessi.
Non per niente, i compromessi a cui siamo giunti nelle nostre vite, portano per molti con sé dolore, rimpianto, rassegnazione; tutte emozioni che possono aprire alla sensazione di avere di fronte a sé un futuro già scritto e immodificabile.

Spesso è qui che si innesta la scelta di iniziare una psicoterapia: nel desiderio di riprendere in mano le cose, di ricominciare, o cominciare a scrivere una storia che sentiamo appartenerci.
Spesso è qui che ci troviamo a lavorare: nella ricerca di senso di quello che c’è stato, di quello che c’è e nella costruzione di nuove strade possibili.

In qualche misura, quello che paziente e terapeuta si trovano a fare è ridare valore a tutti i compromessi che il paziente ha saputo costruire nella propria vita, talvolta accettando di più, talvolta rendendosi più propositivo, ma comunque facendo quello che sentiva di poter fare (come la natura secondo Pievani).

Immaginando quindi che la giraffa di prima inizi una psicoterapia; immaginando che soffra, si vergogni dell’imperfezione del suo nervo laringeo, della lunghezza del suo collo e quindi del suo corpo; immaginando che questo la faccia sentire vittima di un destino beffardo; nel lavoro assieme al suo terapeuta potrebbe ricostruire la storia di quel suo collo, riscrivere tutte le cose che ha saputo fare grazie a lui, nonostante lui e a prescindere da lui, e da lì potrebbe quindi chiedersi: ok, il mio collo me lo tengo, ma da qui, cosa posso e voglio fare di nuovo?

Alessandro Busi
psicologo e psicoterapeuta
a Padova, Mestrino e su Skype

La riscoperta delle parole #7: anche

1 giugno 20201 giugno 20201 commento

Secondo la Psicologia dei Costrutti Personali viviamo l’ansia quando ci affacciamo a un futuro che non sappiamo immaginare e, tanto più questa impossibilità di immaginare riguarda una fetta rilevante della nostra vita, tanto più questa ansia si farà sentire.

***

È molto comune, nella nostra cultura, l’idea per cui è bene essere qualcosa di unico: io sono così, nient’altro che così.
È un racconto potente, emozionante, ma quale rischio che porta con sé?
Il rischio è che, se le cose non vanno come ci aspettiamo, se arriva una pandemia, per esempio, a scombinarci i piani, ci troviamo con un pugno di mosche e, ripartire da un pugno di mosche, a cui diamo il nome di fallimento, diventa più difficile.

***

Questo mix è l’esperienza che molti stanno vivendo oggi: da un lato le domande che si inseguono – cosa succederà al mio lavoro, alle mie relazioni, alle strette di mano? – dall’altro la paura che, se le cose dovessero cambiare, potremmo non riconoscerci più – che ne sarà di me se cambiano tutte queste cose della mia vita?

Per trovare un modo di stare in mezzo a questo affollarsi di domande, la parola che voglio riscoprire oggi è anche, perché, pur dentro i vincoli sociali e personali che ognuno vive, possiamo chiederci: nella mia vita sono stato anche?

Potremmo scoprire, se ci concediamo tempo e fatica, che siamo più complessi di quel monolite che ci eravamo raffigurati; potremmo scoprire lati di noi che ci piacciono e altri non vorremmo, che bontà e cattiveria, giusto e sbagliato non si distinguono in modo netto, nemmeno dentro la nostra storia; potremmo scoprire che nella nostra vita abbiamo avuto un ruolo attivo e che da lì possiamo ripartire a immaginare il futuro, per quanto anche sfocato, per quanto anche diverso da quello che ci aspettavamo, per quanto anche rischioso, ma di certo anche nostro.

Alessandro Busi
psicologo e psicoterapeuta
a Padova, Mestrino e su Skype

Le precedenti parole riscoperte sono: attesa, quasi, vulnerabilità, come se, relazione, virtuale.

Fare la psicoterapia nella fase 2

18 Maggio 202016 Maggio 2020

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Il tempo è una cosa strana: c’è e non c’è, si fa sentire ma proviamo a ignorarlo.
Sarà per questo, per dare corpo a qualcosa che corpo non ce l’ha, che tendiamo a suddividere quel flusso continuo?
Perché con il tempo raccontiamo come eravamo, come siamo e come saremo, trovando differenze e somiglianze, quindi abbiamo bisogno di qualcosa che faccia da unità di misura dei nostri cambiamenti – giornate, anni, età, fasi della vita, epoche storiche…

Anche questa pandemia la stiamo raccontando per fasi.
Ci sono state state la fase del pericolo lontano, poi quella della sottovalutazione, poi quella dell’emergenza, poi quella del lockdown, la cosiddetta fase 1, e ora siamo sempre di più dentro la fase 2, che potremmo chiamare fase della discrezionalità e della costruzione del futuro.
Nella fase 1 eravamo in una situazione di attesa e la risposta a molte domande era “no”, oggi siamo in una fase potenzialmente lunga e in cambiamento, nella quale, alle domande, si risponde con “dipende”, “pensaci”, “valuta”.
Questo, dandoci molta più libertà, ci mette di fronte alle nostre scelte e ai nostri timori, che non possono più stare nascosti nelle mura del divieto; ma diventano responsabilità personale e collettiva.
Ma d’altro canto, c’è altro modo per costruire un futuro a lungo termine?

Anche nella psicoterapia emergono nuove domande – Cosa desidero? Di cosa ho paura? Cosa mi sento di fare? Cosa penseranno gli altri di me? Cosa dovrei fare? – che riguardano sì la vita da costruire dentro i nuovi vincoli, ma anche le nostre paure più personali e di vecchia data: la paura di sbagliare, la paura del giudizio, la paura di non essere all’altezza…
Perciò ansia, desiderio di rinchiudersi, desiderio di sottovalutare, di fingere che tutta la situazione non sia vera; ma anche la possibilità di chiederci: cosa vorrei tenere di questo periodo nel mio futuro? Cosa dicono di me queste nuove paure? Come posso fare?
Magari scopriamo che questa situazione sta facendo emergere vissuti che già ci appartenevano e che ora non possiamo più sopire; ma potremmo scoprire anche che la nuova scansione delle giornate non la vogliamo buttare, oppure che le relazioni hanno un valore diverso rispetto a quello che avevamo dato loro fino a due mesi fa. E quindi di nuovo, come possiamo fare per tenerci strette queste nuove consapevolezze e renderle concrete nel futuro?

Come possiamo fare? è la domanda che mi sono posto anche io quando ho deciso che avrei gradualmente ripreso a fare i colloqui anche negli studi di Mestrino e Padova e mi sono risposto due cose:
– primo, che rimane la possibilità, per chiunque lo desideri, di effettuare la psicoterapia via Skype. Questa scelta nasce, da un lato dalle ragioni sanitarie per le quali qualcuno potrebbe preferire non venire in studio, dall’altro perché, in queste settimane più ancora di prima, mi sono reso conto che la psicoterapia via Skype non è una psicoterapia inferiore, ma una delle possibilità che oggi abbiamo di stare nella relazione clinica, possibilità che porta con sé vissuti, significati, emozioni che permettono un lavoro intenso e personale;
– secondo, che, proprio perché il lavoro di psicoterapia è personale, se per qualcuno la terapia online è percorribile, per altri non lo è, quindi, seguendo le indicazioni dell’Ordine degli psicologi del Veneto, ho ritenuto fosse importante riprendere le attività anche di persona nei modi più sicuri possibile:

  • poltrone a distanza di almeno 2 metri;
  • obbligo di indossare la mascherina;
  • gel igienizzante in studio da usare all’arrivo e prima di uscire;
  • pulizia delle superfici e ricambio di aria fra un colloquio e l’altro.

Tutto questo per me significa novità, che nasce dal compromesso fra le vecchie abitudini e le nuove condizioni, perché, proprio come abbiamo sempre fatto con la vita, è così che possiamo ripartire dentro questa nuova fase: tenendo ciò che per noi conta, lasciando andare qualcosa che non ci piace, che non possiamo continuare oppure che non sentiamo più appartenerci, e costruendo nuove strade da percorrere.

Alessandro Busi
psicologo e psicoterapeuta a Padova, Mestrino e su Skype

La riscoperta delle parole #6: virtuale

6 Maggio 20202 commenti

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A febbraio uscì una notizia che mi colpì molto. Ve la riassumo, ma lascio anche il link a un articolo più completo. La storia è questa.
Un vigile urbano di 44 anni di un piccolo paese lombardo parcheggiò impropriamente la propria auto in un parcheggio per disabili. Il presidente di un’associazione per disabili la fotografò e denunciò attraverso i propri canali social il comportamento scorretto. A quel punto, il vigile fu inondato di offese, minacce e auguri di morte, che continuarono anche quando pagò la multa e quando fece una donazione all’associazione accompagnata a una lettera di scuse per l’errore commesso. Ma la cosa ormai era sfuggita di mano.
Quello che immagino è che, per quest’uomo, la vergogna fosse diventata troppo grande da sopportare, così, il 3 febbraio, decise di togliersi la vita.
La storia potrebbe finire qui, invece nei giorni successivi fu il presidente dell’associazione a diventare bersaglio di offese, minacce, auguri di morte.

Potremmo chiederci tante cose per capire una tragedia simile: perché denunciamo i comportamenti scorretti attraverso i social, cosa ci aspettiamo che accada? Come funziona la dimensione di branco, quando il territorio è quello telematico?
Potremmo interrogarci sulla vita dentro la quale queste offese cadevano. Alcuni articoli hanno sottolineato che il vigile viveva già una situazione di sofferenza. Certo, dico io, ma questo non ci assolve, anzi, ci ricorda che ogni volta che commentiamo, offendendo o elogiando, non stiamo scrivendo parole che cadono nel vuoto, ma stiamo intervenendo nella vita di qualcun altro, una vita già fatta di felicità, dolori, paure, speranze…
A prescindere dal punto di vista che scegliamo di adottare, è innegabile che le esperienze virtuali generino dentro di noi emozioni che sono reali tanto quanto le emozioni legate alle esperienze offline.

In queste settimane, tutti, anche i più restii, ci siamo trovati di fronte alla necessità di ampliare la nostra vita telematica: per lavorare, per poter incontrare parenti e amici, per poter allargare le mura di casa. Qualcuno ha accolto questa novità, qualcuno l’ha rifiutata, molti l’hanno accettata con momenti alterni di piacere e fastidio. Non credo ci sia un modo giusto e uno sbagliato di viverla, ma quello che è certo è che tutti abbiamo provato, rispetto al nostro essere online, emozioni che non possiamo sminuire, perché sono emozioni che riguardano le nostre relazioni, il nostro mondo e la possibilità di immaginarci nuovi.

Lo stesso è successo anche in psicoterapia. L’aumento – parlo di aumento perché io ho sempre fatto anche terapia online – dei colloqui via Skype ha permesso di scoprire differenze personali dentro un cambio di setting così forte (chi lo preferisce? Per chi è difficile? Come mai?), ha permesso modi nuovi di stare assieme (es. Come mi sento a chiedere la privacy ai miei familiari?), emozioni potenti – positive e negative che siano – che non ci saremmo aspettati (es. Come mi sento a raccontarmi in terapia, ma dentro le mura di casa?). In altri termini, questi nuovi vincoli ci hanno obbligato a esplorare strade che magari non avremmo percorso e quindi ad averle, ora e nel futuro, come alternative in più.

Per questo, la parola che voglio riscoprire oggi è virtuale, perché possiamo provare a smettere di considerarla come un realtà meno reale, ma come una via possibile: possiamo rifiutarla, accettarla, oppure decidere in che modo percorrerla; possiamo chiederci come ci stiamo, cosa ci concediamo, cosa evitiamo e cosa potremmo fare di diverso; possiamo chiederci che ricadute ha nella nostra vita, nelle nostre relazioni; possiamo immaginare le ricadute di ciò che facciamo nelle vite di chi incontriamo online; ma non possiamo prescindere dal pensare che fa parte della storia che scriviamo, oggi.

Alessandro Busi
psicoterapeuta a Padova, Mestrino e su Skype

Le precedenti parole riscoperte sono: attesa, quasi, vulnerabilità, come se, relazione.

La riscoperta delle parole #4: Come se (di Chiara Centomo)

15 aprile 202015 aprile 20204 commenti

Proseguiamo con La riscoperta delle parole** e anche con gli ospiti. Oggi la parola, o meglio, le parole ce le propone la collega psicologa e psicoterapeuta Chiara Centomo*.
Con lei esploreremo il linguaggio, il ruolo dei modi di parlare nella nostra vita e in particolare, vedremo l’importanza di due parole minuscole ma così grandi: come se.

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“La condizione umana” di R. Magritte (1935)

Sin da bambini ci è stato insegnato che esistono due tipi fondamentali di linguaggio, uno letterale e uno metaforico, e che entrambi possono esprimere lo stesso contenuto: Romeo può dichiararsi a Giulietta sia affermando di essere innamorato di lei, sia che le piace da impazzire. La differenza starebbe nel fatto che la modalità letterale (prerogativa della scienza, di un parlare esatto) permette di essere precisi e oggettivi, mentre la metafora sarebbe materia prima di artisti, poeti e sognatori.

Se esaminiamo più a fondo il nostro linguaggio, tuttavia, scopriamo che il parlare quotidiano è zeppo di espressioni e immagini metaforiche utilizzate per consuetudine come se fossero letterali. Pensiamo ad esempio al tempo che si afferra, si usa, si spreca o è lungo, pesante, lento. Le idee maturano, l’amore si conquista, certi pensieri sono difficili da sradicare, le persone possono essere elastiche o rigide e quando sono felici si sentono al settimo cielo, mentre se sono tristi hanno l’umore sotto terra.

È molto probabile che queste espressioni, insieme alle centinaia individuate da Lakoff e Johnson nel loro bellissimo libro “Metaphors we live by”1, non vengano immediatamente ricondotte al “come se” che implicitamente contengono (il tempo come se fosse un oggetto, l’innamoramento come se fosse un assedio, le persone come se fossero dei materiali con certe proprietà fisiche, ecc.). Esse, anzi, appaiono come modi appropriati e veri – letterali, appunto – di comunicare.

Si dice spesso che il modo in cui parliamo contribuisce attivamente a costruire la realtà che viviamo. Può sembrare un’affermazione astratta, fino a quando non consideriamo le metafore. Per esempio, quando pensiamo o parliamo del tempo come se fosse denaro (“in questo rapporto ho investito gli anni più belli della mia vita”, “mi ha rubato minuti preziosi”, “un’intera giornata è andata in fumo“, ecc.) tendiamo a strutturalo, percepirlo e viverlo esattamente in questi termini, ovvero come qualcosa che può essere speso, investito più o meno saggiamente, dissipato, sottratto.

L’analogia viene resa letterale nella nostra esperienza, tanto che in alcune situazioni anche non direttamente legate a una produttività economica ci sentiamo realmente derubati del nostro tempo e ne pretendiamo il risarcimento, o veniamo assaliti dalla frustrazione e dal rimpianto quando abbiamo la sensazione di averlo sprecato.

Utilizzando un’altra metafora potremmo mettere in luce sfumature diverse del modo in cui è possibile vivere il tempo? Decisamente sì. Pensiamo ad esempio a come ci sentiamo quando ci immergiamo in alcuni tipi di meditazione2, dove spesso si invita a fare esperienza del tempo come qualcosa che scorre: come se fosse una corrente che non si può fermare o gestire a proprio piacimento, ma da cui lasciarsi trasportare quietamente imparando, al limite, a governare le proprie vele nel momento presente.

I “come se” che scegliamo per parlare non solo del tempo ma di ciò che più ci sta a cuore diventano parte della nostra esperienza: scegliamoli con cura, perché davvero come dicono Lakoff e Johnosn noi viviamo attraverso le metafore.

Come parliamo, ad esempio, dell’amore? Come se fosse una guerra (“l’ho conquistata“), un oggetto personale (“è mio“), un viaggio (“siamo a un bivio“), un lavoro (“ci vuole impegno“) o magari un sacrificio (lo amo da morire“)?
Quali sono le implicazioni di ognuna di queste immagini? Quali possibilità aprono, e cosa invece non ci permettono di esplorare dell’esperienza dell’amore?
Cosa cambierebbe se, parlando di un problema di coppia, provassimo a utilizzare un altro “come se”?

1 Il libro, pubblicato nel 1980, è disponibile in italiano con il titolo “Metafora e vita quotidiana”.

2 Ad esempio la Mindfulness. pratica di consapevolezza sviluppata a partire dalla filosofia buddista (scevra dalla sua componente religiosa).

*Chiara Centomo, psicologa e psicoterapeuta. Accompagno adulti, adolescenti e coppie in percorsi di psicoterapia, di consulenza e di miglioramento personale; mi occupo inoltre di formazione, orientamento e divulgazione scientifica. I miei interessi di ricerca sono principalmente il rapporto corpo-mente e il linguaggio.
Contatti: chiaracentomo@gmail.com
Sito: http://www.chiaracentomo.com
Pagina Facebook: Chiara Centomo Psicologa Psicoterapeuta

**Le precedenti parole sono state: attesa, quasi, vulnerabilità.

 

La riscoperta delle parole #2: quasi

1 aprile 202030 marzo 20206 commenti

Schermata 2020-03-29 alle 19.14.28

frame tratto da “L’amica geniale – Storia del nuovo cognome”

Qualche settimana fa è finita la seconda stagione della serie L’amica geniale, tratta dall’omonimo romanzo – quadrilogia – della scrittrice misteriosa Elena Ferrante.
Per chi non la conosce, L’amica geniale è la storia dell’amicizia fra Elena e Lila, un’amicizia lunga una vita e che attraversa il dopoguerra italiano e arriva quasi a oggi.
La seconda stagione racconta l’adolescenza e la prima età adulta delle protagoniste, quindi il costruirsi di due percorsi di vita distanti: Elena studia, Lila si sposa sedicenne e va subito a lavorare; Elena frequenta la Normale di Pisa, Lila si ferma a Napoli, apparentemente vittima di un destino sociale già scritto.
Nonostante queste disparità, che ci potrebbero far pensare che sia Elena quella, diciamo così, di successo, non si argina la sua sensazione di sentirsi meno di Lila.
Nell’ultima puntata, c’è un monologo in cui spiega questa sua sensazione:

All’improvviso mi resi conto che tutta la mia vita era un “quasi”.
Ce l’avevo fatta? Quasi.
Mi ero strappata a Napoli e al rione? Quasi.
Avevo amiche e amici nuovi, che venivano da ambienti colti? Quasi.
Di esame in esame ero diventata una studentessa ben accolta dai professori che mi interrogavano? Quasi.
Dietro tutti quei quasi, mi sembrò di vedere come stavano le cose. Avevo ancora paura e sentivo che da qualche parte, Lila, come sempre, era senza “Quasi”.

Chi può dire di non capire Elena? Quel sentirsi insufficiente rispetto al percorso che sta facendo, e più ancora rispetto alle aspettative che aveva per sé.
E chi può dire di non comprendere quel paragone rispetto a una persona che le sembra più completa di lei?
Tante volte, in terapia, mi è capitato di sentirmi dire “mi sembra che gli altri siano più completi di me, che sappiano vivere meglio di me”. Chi può dire di non averlo mai pensato?

Allora mi chiedo: perché ci preoccupa tanto essere quasi?
A leggere quello che dice Elena, sembra che sentirsi quasi sia una colpa, rispetto al dovere di sentirsi finita. Ma perché vogliamo sentirci completi quando ancora ne abbiamo da vivere?

Quasi è una sensazione che sperimentiamo anche in questi giorni in cui ci sentiamo di vivere, quasi. E questo ci fa soffrire perché, come dicevamo parlando di attesa, non ci piace vivere in un tempo diminuito, tanto più quando questo tempo si fa e si prospetta lungo.

Allora possiamo provare a muovere il punto di vista e porci delle domande come:
in cosa mi sento quasi?
In cosa mi sta bene sentirmi quasi? In cosa lo odio?
Qual è la storia di questo mio quasi?

Potremmo scoprire che sentirci di non aver completato un percorso – metaforico o concreto che sia – ci può aprire la possibilità di proseguire, oppure di cambiare, anche se ci sembra difficile, o addirittura impossibile.
Potremmo scoprire, come sarà per Elena, che sentirci quasi ci può portare ad avere meno punti assoluti, magari più paura, ma anche più tenacia per dare forma alle nostre strade e relazioni, per quanto in costruzione, per quanto quasi.

Alessandro Busi

*La prima parola della rubrica “La riscoperta delle parole” la trovate qui: attesa.

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