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Alessandro Busi Psicoterapeuta Padova

Ogni vita merita un romanzo

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Tag: relazione

La riscoperta delle parole #12: Storia

14 marzo 202112 marzo 2021

In questi mesi mi è successo di ascoltare alcuni podcast dello storico Alessandro Barbero.
Il modo che usa per avvicinarci agli eventi storici è quello di focalizzarsi sul senso che aveva per le persone dell’epoca comportarsi in quello specifico modo. È una precisazione che fa spesso: non pretendete di guardare con gli occhi di oggi gli eventi e le persone del passato, se li si volete capire.
Perché Cavour spinse tanto per l’Unità d’Italia? Perché i soldati italiani accettarono di combattere a Caporetto? Perché scoppiò la rivoluzione francese?
Se vogliamo capirli dobbiamo provare a metterci nei desideri di Cavour, nelle aspettative dei soldati sul fronte della Grande Guerra, nella visione del mondo e della società che c’era in Francia alla fine del ‘700.

***

Una sensazione che molte persone raccontano in psicoterapia è questa: la paura di aver sprecato il proprio tempo, di non aver scelto quello che volevano ma, talvolta quello che dovevano, talvolta quello che la vita faceva capitare loro sotto i piedi.
Questa sensazione porta con sé un rosario di altre sensazioni che vanno dall’incolparsi, al sentire il peso del tempo che passa, al pensare di aver sbagliato, o peggio ancora di avere qualcosa di intrinsecamente sbagliato: perché tutti gli altri sono capaci di vivere e io no?
Questa visione apre purtroppo a uno scenario difficile da scardinare, perché è lo scenario nel quale sentiamo di non avere la possibilità di incidere in prima persona in quello che sembra essere un destino già scritto.

Un’altra sensazione ricorrente in terapia è però anche lo stupore; lo stupore di prendersi del tempo per chiedersi: ma io, questa vita, come l’ho costruita?
Lo stupore, a volte piacevole e a volte doloroso, di guardare al proprio tempo, alle emozioni provate, ai bivi di fronte ai quali ci si è trovati, e ridare senso alle scelte fatte, che magari non erano quelle più desiderate, ma di certo erano quelle più sensate in quel momento.
In questo modo, infatti, possiamo scoprire che non abbiamo vissuto la vita dei sogni, ma quella che, dentro tutte le asperità che ci sono toccate, ci siamo conquistati. Le occasioni sprecate potrebbero iniziare ad avere un senso, e così il tempo lasciato andare, le scelte che ci apparivano così sbagliate.
Allo stesso modo possiamo capire anche quello che ci sentiamo di fare e di non fare oggi, quello che vogliamo e quello che ancora ci fa troppa paura; e da lì immaginare strade alternative e aprirci, se e come ce la sentiamo, a nuove possibilità.
Perché, se per comprendere la peste del ‘300, come dice Barbero, dobbiamo entrare negli occhi di chi viveva all’epoca, come possiamo pretendere di capire la nostra vita senza dare valore alla nostra storia?

Alessandro Busi
psicologo e psicoterapeuta
a Padova, Mestrino e su Skype

Le precedenti parole riscoperte sono: attesa, quasi, vulnerabilità, come se, relazione, virtuale, anche, compromesso, concretezza, crisi e paura.

Verso la fine dell’anno. Che anno?

15 dicembre 202013 dicembre 2020
Particolare della copertina del calendario 2020 di Guido Scarabottolo

È dicembre inoltrato e ci stiamo quindi muovendo verso la fine del 2020.
“Per fortuna!”, aggiungeranno molti.
È comprensibile, perché – dico una banalità – il 2020 ha messo a soqquadro le nostre vite. Chi, a gennaio, avrebbe potuto immaginare quello che sarebbe successo da lì a pochi giorni?
Se qualcuno ci avesse detto: non vi abbraccerete, non vi darete la mano, girerete sempre con indosso una mascherina, gli avremmo fatto i complimenti per la fantasia e gli avremmo consigliato di scriverci un bel libro di fantascienza, ma chi gli avrebbe creduto?
E invece eccoci qui, a sfruttare più che possiamo quella che molti etologi sostengono essere la migliore qualità dell’essere umano: la capacità di cambiare le proprie abitudini, per adattarsi all’ambiente che lo circonda.
Cambiare abitudini, però, dovrebbe essere un processo graduale, perché le abitudini, se le abbiamo costruite negli anni, vuol dire che per noi avevano un senso, quindi, modificarle implica modificare anche il nostro modo di vedere e stare al mondo.
Con la gradualità è possibile (e sottolineo possibile) che ci percepiamo attori protagonisti di questo processo, per cui sentiamo che anche le nuove abitudini hanno senso; altrimenti, è più probabile che viviamo questi cambiamenti come una strozzatura della nostra libertà di scelta, che si assoggetta a un mondo esterno che non avevamo mai sentito così opprimente.
Che sia questa la pandemic fatigue (fatica da pandemia) di cui tanto si parla? Non lo so. Di certo, non stiamo parlando di un’etichetta astratta, ma di cose molto concrete: pensieri, preoccupazioni, difficoltà a prevedere il futuro che abbiamo davanti; ansia, dolore, paura; modi di stare assieme, modi di stare in famiglia, in coppia, con gli amici; l’importanza del lavoro e degli hobby, le uscite del sabato, il nostro rapporto con la tecnologia, il nostro rapporto con i soldi… e potrei proseguire così a lungo da annoiarci.

Sono convinto che parte della difficoltà a stare dentro questo periodo – accanto al nostro esserci scoperti vulnerabili – nasca dal rapporto con la libertà e con le relazioni.
Il cambiamento più grande dentro il quale ci troviamo, infatti, è proprio la necessità di considerare che non siamo liberi al cento per cento, ma ogni nostra scelta, azione, è frutto di compromesso. Ma prima della pandemia, non era già così? Io credo di sì, solo che, nel mondo per come eravamo abituati a conoscerlo prima di marzo 2020, tutto rientrava nella normalità delle cose.
Quante volte, più o meno consapevolmente, ci siamo per esempio chiesti: “preferisco comportarmi in questo modo che desidero, avendo la sensazione di deludere chi mi vuole bene, oppure in quest’altro, deludendo il mio desiderio, ma sperando di fare contente le persone che amo? E chi mi sento di essere se scelgo una strada invece che l’altra?“
Ognuno di noi ha costruito la propria vita per esperimenti e aggiustamenti, per compromessi, e i compromessi possono essere tanto meno dolorosi, quanto più sentiamo che per noi hanno senso. Il che non significa che siamo sempre andati nella direzione che desideravamo, no, ma che, anche quando ci siamo rassegnati, siamo stati noi a rassegnarci e quella rassegnazione ci ha visti attori protagonisti.
Non credo che fare ciò sia facile, anzi, e spesso la psicoterapia è anche questo spazio, lo spazio nel quale ricostruire il senso delle scelte fatte, delle emozioni vissute, sperate ed evitate, per sentire che la nostra vita ha un respiro ampio e per poterci chiedere: pur all’interno dei vincoli della mia vita, che direzione mi sento di prendere da qui?

Dicevamo che il 2020 sta volgendo al termine.
Per molti la chiusura di un anno è un momento nel quale fare il punto. Fare il punto di un anno così, però, è difficile, quindi potrebbe essere forte la tentazione di chiudere gli occhi e sperare che il 2020 finisca e porti via con sé tutto.
Purtroppo, e lo sappiamo tanto bene quanto lo speriamo, non andrà così. I nuovi vincoli che il mondo attorno ci pone li troveremo a gennaio e nei mesi a venire. Cambieranno, cambieremo, ma non scompariranno, quindi dovremo ancora farci i conti, proprio come abbiamo fatto fino a ora.
Un’alternativa che abbiamo per poterci aprire a un 2021 nel quale sentirci un po’ più capaci di surfare sopra questo mare mosso, provando a non farci sommergere dal caos o a dare un senso al nostro eventuale sommergerci, potrebbe essere quella di riguardare al 2020 e chiederci: dentro a tutto questo, cosa ho fatto? E quando ce lo chiediamo, fare uno sforzo per andare a fondo. Così, per esempio: sì, facevo il pane, ma mentre facevo il pane, cosa facevo?
Potremmo scoprire che, mentre facevamo il pane, ci stavamo coccolando, speravamo fosse un modo per prenderci cura delle persone a cui vogliamo bene, ci stavamo sforzando a costruire una routine nuova che ricostruisse una prevedibilità nelle giornate senza le uscite di casa, e chissà cos’altro.
In questo modo non scomparirà l’impatto emotivo, anche doloroso, di questo periodo, ma sono convinto che, più aspetti ci sentiamo di esplorare in questo modo, più possiamo scoprire che anche questo 2020 lo abbiamo vissuto, non nel modo che speravamo a gennaio, ma comunque dando la nostra impronta, anche la nostra impronta. Quindi possiamo chiederci: che impronta ho dato a questo 2020?

Alessandro Busi
psicoterapeuta a Padova, Mestrino e su Skype

La riscoperta delle parole #5: relazione

22 aprile 202022 aprile 20204 commenti

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particolare della copertina di “Possiamo salvare il mondo, prima di cena” di Johnatan Safran Foer

La parola di oggi la riscopriamo* grazie all’iniziativa #NoiRestiamoInContatto della Scuola di Psicoterapia Costruttivista Icp di Padova: una serie di video di vari professionisti sanitari – psicologi e non – che esplorano il periodo che stiamo vivendo da punti di vista diversi.

Il contributo che ho provato a dare ruota attorno alle storie che raccontiamo di noi e degli altri, agli eroi che volevamo essere e a quelli che potremmo essere, partendo dal presupposto che in questo periodo stiamo riscoprendo una parola più di tutte: relazione.

Di seguito trovate il video e poi il testo che mi ha fatto – più o meno – da traccia.

Buongiorno a tutti, sono Alessandro Busi e sono uno psicologo e psicoterapeuta e, di fianco all’attività clinica, mi occupo anche di scrittura, di narrazioni.

Per questo tendo a ragionare per parole, quindi, quando mi è stato proposto di partecipare all’iniziativa “Noi restiamo in contatto”, mi sono chiesto quale parola stesse segnando più di altre questo periodo, e mi sono risposto: relazione.

Non mi riferisco solo al contraltare dell’isolamento, ma ne farei un discorso più ampio.

Partiamo da una domanda: come è successo che abbiamo imparato a considerare l’autonomia e la singolarità come contrapposte alle relazioni, come se le due cose si escludessero a vicenda?

Guardiamo alla nostra storia, l’idea di eroe solitario ci accompagna da Ulisse contro Polifemo, Il vecchio di Hemingway che affronta il marlin, la self made woman Miranda di Sex and the City, il rapper Tupac Shakur che intitolò il suo terzo disco Me against the world. Ma, anche ammesso che siano eroi solitari, la domanda di prima rimane: questo essere eroi solitari li rende estranei alle relazioni?

Tempo fa leggevo un libro di Jonathan Safran Foer, Possiamo salvare il mondo, prima di cena, che quasi all’inizio parla del Libro dei finali secondo il quale ogni respiro che facciamo conterrebbe una piccola parte di tutti i respiri della storia della mondo: Giulio Cesare, Napoleone, i mammut, la nostra maestra dell’asilo… tutti, attuali e passati. Foer poi dice: “A ogni ispirazione assorbivo la storia della vita e della morte sulla terra. Questo pensiero mi offriva una veduta aerea della storia: un’ampia rete fatta di un unico filo”.

Ecco, questa immagine della rete fatta da un unico filo mi è spesso tornata in mente in questo periodo perché rende bene la responsabilità del nostro ruolo individuale dentro un tessuto di relazioni; ci dice stare in relazione non è opposto a essere individui, ma anzi, proprio perché esistiamo come singoli, singoli nodi della rete, siamo interconnessi con gli altri.

Credo che l’esperienza che stiamo facendo di questo virus ci stia inchiodando proprio alla nostra condizione di esseri viventi in relazione – tutte: ristrette, online, cliniche, lontane, vicine, immaginate, solitarie, fra persone, economiche, fra età, fra specie…:

  • quando pensiamo “potrei essere venuto in contatto con il virus?” e allora scopriamo la miriade di persone con le quali siamo collegati in pochi passaggi;
  • quando sperimentiamo l’utilità e la fatica dell’isolamento sociale, che ha ricadute così ampie che a volte facciamo fatica perfino a convincerci che sia vero;
  • Quando ci ricordiamo che siamo ammalabili, quindi che potremmo noi stessi avere bisogno delle cure di qualcuno.

Bene, ma cosa possiamo farcene di queste nuove consapevolezze? Io immagino almeno tre strade, tutte e tre umanamente molto comprensibili:

  • Possiamo reagire con rabbia, obbligarci a tornare a vivere con le stesse convinzioni individualista di sempre, che però ora sono accompagnate dalla sensazione di fragilità, quindi, più ci aggrappiamo, più le sentiamo sgretolarsi, quindi più abbiamo paura che possano non reggere;
  • Possiamo rassegnarci, sentirci inermi, in balia del destino, stavolta la paura sarà diversa, più vicina al terrore, il terrore di chi sente che basta un colpo d’aria per cambiare tutto;
  • Possiamo concepire che abbiamo paura, ansia, panico e terrore; possiamo concepire che ci sono alcune cose che di questa quarantena ci piacciono, e che questo, magari, ci fa sentire in colpa; possiamo concepire che siamo arrabbiati perché sentiamo che ci toccherà cambiare il nostro modo di vivere, rimodulare le speranze su cui avevamo puntato. Possiamo dare spazio alla portata emotiva di questa delusione e poi, se ce la sentiremo, quando ce la sentiremo, potremo chiederci:
    Bene, cosa possiamo fare?
    Chi vorrei e chi mi sento e chi ho paura di essere con gli altri?
    Chi mi piacerebbe e chi ho paura che gli altri siano con me?
    E così via, provando insomma a chiederci: in quali altri modi possiamo stare dentro quella rete a filo unico?

Io non so la risposta a queste domande, e credo anzi che in questo periodo circolino fin troppe risposte e ricette su come dovremmo vivere questo tempo difficile. Quello di cui sono convinto, invece, è che questo virus stia precipitato dentro le biografie di tutti noi e che quindi spetti a ognuno di noi porci queste domande e assieme dare spazio a quello che sentiamo, così da permetterci di costruire, da soli e quindi assieme, delle nuove storie, dei nuovi miti e dei nuovi eroi che vorremmo e essere.
Non è semplice, ma può valerne la pena, perché, di fronte a un cambiamento così grande, quello che siamo chiamati a fare è proprio far ripartire le storie: da qui, che tipo di eroi possiamo essere.

Alessandro Busi

*Le precedenti parole de La riscoperta delle parole sono: attesa, quasi, vulnerabilità e come se.

La vita in relazione: DPCM 8 marzo, psicoterapia e responsabilità [EDIT 12 marzo]

9 marzo 202017 marzo 20201 commento

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Stiamo vivendo un momento difficile, in cui ognuno di noi fatica a capire come ci si deve comportare, cosa è necessario fare, cosa si può evitare. Le informazioni che ci arrivano sono tante e spesso minacciano le nostre abitudini e aspettative verso il futuro. Questo dà preoccupazione, ansia: desiderio a volte di esagerare, altre volte di far finta che non stia succedendo nulla.
È comprensibile, di fronte alla paura forte spesso reagiamo così. Ma possiamo anche provare a fare qualcosa di diverso.
Fermiamoci un momento e pensiamo a quello che ci sta succedendo.
L’emergenza sanitaria è qualcosa che nessuno si poteva aspettare, che spaventa, e che ci impone di ripensare in parte alle nostre azioni abituali, quantomeno per un periodo.
Ma noi non siamo abituati ad avere delle limitazioni, tanto meno alla nostra libertà di movimento. Eppure ci sono situazioni in cui è necessario pensare alla salute di tutti: ricordarci che, anche quando siamo soli, siamo sempre inseriti nelle maglie delle relazioni.
Questo può essere limitante, è innegabile, ma che altro può essere?
Ogni nuovo vincolo ci impone di pensare a nuove possibilità, ci impone di chiederci

Cosa posso fare dentro questi nuovi vincoli?
A cosa posso rinunciare ora per rinunciare meno in futuro?
Come posso stare assieme agli altri in modo diverso?

E quindi di ricordarci che, se siamo responsabili delle nostre azioni, vuol dire anche che abbiamo libertà di scelta.

Questo vale per tutto, perciò vale anche per la psicoterapia. Siccome la situazione è delicata, divido tre punti importanti, nella speranza di essere chiaro:

  • con il DPCM – Decreto delPresidente del Consiglio dei Ministri – dell’8 marzo e con l’aggiornamento del 9 marzo e quello ulteriore del 12 marzo è ancora possibile svolgere la psicoterapia individuale e di coppia via Skype e anche nei miei studi di Padova, Mestrino – grazie al fatto che entrambi gli studi permettono di garantire le norme igienico sanitarie suggerite dall’Istituto superiore della Sanità;
  • nel decreto i divieti assoluti di movimento riguardano chi sta male*, e proprio per questo è richiesto a tutti di assumersi la responsabilità di ridurre al minimo gli spostamenti solo per ragioni di lavoro, sanitarie (fra cui rientra la psicoterapia) ed emergenze. Seguendo quel principio di responsabilità personale e sociale che dicevo prima, con tutti i miei pazienti valuteremo di effettuare i colloqui su Skype. Solo in casi di necessità, li svolgeremo di persona. In questo secondo caso, chi verrà in studio dovrà produrre un’autocertificazione in cui dichiara le ragioni del proprio viaggio (qui la nota del Ministero degli Interni) da esibire in caso di controlli. Sarà possibile anche rilasciare un certificato con data e ora del colloquio da poter esibire in allegato;
  • Con le stesse attenzioni alla responsabilità, ci muoveremo anche con chi vuole iniziare un nuovo percorso. La via privilegiata sarà la terapia via Skype, mentre gli incontri di persona a Padova e Mestrino saranno per queste due settimane marginali. Chi desidera fissare un primo colloquio o volesse chiedere informazioni mi può contattare al 3275389290, via email alessandrobusi.psy@gmail.com, oppure tramite il mio account di Guidapsicologi.

Proviamo a rendere questa situazione meno scomoda e duratura possibile: ci vuole un po’ di impegno da parte di tutti e ricordarci che una cosa che contraddistingue noi esseri umani è la capacità di cambiare per far fronte alle avversità. E proprio questo è quello che si fa in psicoterapia: costruire strade nuove per vivere diversamente anche le situazioni più difficili; riscoprirci liberi di scegliere.

Alessandro Busi
psicoterapeuta a Padova, Mestrino e via Skype

* Chi dovesse sentire anche lievi sintomi riconducibili all’influenza, quindi simili a quelli del Covid-19, oppure riconducibili a quelli del Coronavirus, oltre a contattare telefonicamente il proprio medico di base e i numeri dedicati, è invece tenuto a restare in casa. In questo caso, sarà possibile continuare i percorsi di psicoterapia via Skype, garantendo quindi un sostegno anche in una situazione non certo facile.

NB: con il procedere delle novità, aggiornerò il post in modo da rendere le informazioni più complete possibili.

Il segreto di un matrimonio felice è sapere come litigare

10 febbraio 202018 marzo 2020

Due anni fa lessi questo articolo del New York Times e pensai che sarebbe stato bello tradurlo per il blog. Vai a capire perché, non l’ho mai fatto, fino a oggi.

In questo breve pezzo la psicoterapeuta californiana Daphne De Marneffe entra nelle dinamiche di coppia e in quello che per molti è un tabù: una coppia felice può litigare?

Nei miei colloqui di psicoterapia lo spazio per il litigio, anche per la rabbia, nelle relazioni è una tematica che torna spesso, quindi vi propongo alcuni stralci dell’articolo perché credo dia una prospettiva interessante.

Alessandro Busi
Padova, Mestrino e su Skype

Jing wei

Immagine di Jing Wei presa dall’articolo originale del New York Times

Il segreto di un matrimonio felice è sapere come litigare

Quando le coppie passano da sussurrarsi cose dolci ai preparativi del matrimonio, le loro teste sono occupate da scadenze, cose da fare, incombenze. La loro attenzione sarà catturata dal Grande Giorno, non da cosa succede dopo.

E perché no? Le coppie comprensibilmente vogliono assaporare la loro gioia elettrizzante. Il sociologo Andrew Cherlin sostiene che il matrimonio sia passato da svolta a fondamento della vita adulta. Quindi, sono meno un passo per la coppia e più uno spettacolo del proprio “sono arrivato”.

Questo “matrimonio fondamenta” ci spiega perché questa decisione porti con sé una grande quantità di stress e intensità, e perché poi ci si aspetti che anche le routine familiari seguano lo stesso schema perfetto. Non è così […]. Spesso vedo coppie il cui congelato matrimonio di 17 anni inizia a sciogliersi quando riescono a dirsi cose difficili, ma che devono essere condivise.

I fidanzati devono pianificare il matrimonio. Ma mentre pensano al grande giorno, dovrebbero anche pensare a come affronteranno i loro disaccordi. Abbiamo costruito l’amore e il matrimonio in un modo così ideale che le persone sono spaventate di pensare quanto può essere complesso.

Prendiamo l’esempio dei soldi, una fonte di tensione nel matrimonio, da sempre. Tre quarti delle coppie pagano più di quello che volevano per il giorno del matrimonio. […] Ma le decisioni legate ai soldi non smettono mai di essere sfidanti. Sento molte coppie discutere perché uno dei due sente che l’altro è un ostacolo, invece di notare che è la vita stessa a presentare ostacoli. Le scelte economiche devono essere prese tenendo presente le idee dell’atro, che spesso saranno in disaccordo con le proprie. Per questo molti decidono di non parlarne apertamente, e covano in silenzio.

Una volta, in un ristorante, sentii una giovane donna annunciare al suo partner che aveva deciso di lasciare il lavoro per occuparsi del matrimonio. Ci fu un silenzio straziante. Qualcosa doveva essere detto – perché non me ne hai parlato prima?. Invece, lui rimase in silenzio.

Le persone che lavorano in terapia con le coppie, spesso parlano del bisogno di costruire una “storia di coppia”, ma, se le coppie iniziano a collaborare, devono anche prevedere come avere conversazioni utili, e le conversazione, a differenza dei monologhi, possono essere molto dure.

Nella nostra cultura avversa al conflitto, spesso non prendiamo queste capacità di litigare come parte dell’amore. Ho visto però che i matrimoni migliori coinvolgono persone che fronteggiano emozioni negative […]: non rinnegano la rabbia, ma nemmeno la vivono con soddisfazione; affrontano le cose in modo forte senza smettere di prestare ascolto; chiedono scusa se fanno qualcosa di male.

Quello che conta in un matrimonio è ciò che rendiamo possibile oltre al rossore iniziale: conversazioni che siano profonde, intime e sincere. Non ci incontriamo attraverso una comprensione mistica: ci innamoriamo con la passione, poi realizziamo l’amore attraverso continue conversazioni.

Con quelle discussioni coltiviamo l’attitudine emotiva essenziale del matrimonio: io posso capire ciò che pensi e senti, senza che ciò mi privi della mia esperienza. La tua realtà non cancella la mia.

Tutto questo può sembrare noioso o di poco conto nella lista delle cose da fare, ma nella vita di coppia le emozioni chiedono tempo.
L’artista Georgia O’Keefee disse: “nessuno vede un fiore – veramente – è troppo piccolo e richiede tempo – non abbiamo tempo – ma vedere richiede tempo, come avere un amico richiede tempo”. Quello che molti cercano in un matrimonio è avere un amico intimo. La chiave per un amore duraturo è prendersi il tempo di capire e decidere cosa fare.

Il giorno del matrimonio è una celebrazione di un giorno, ma la vita di matrimonio è una processo senza finale scritto di incomprensioni da sciogliere. Quindi auguro a tutti i nuovi fidanzati una grande gioia. Ma auguro anche che, fra catering e inviti, si prendano una paura per pensare come litigano e come vogliono parlare.

Di cosa parliamo quando parliamo di amori?

15 febbraio 201818 marzo 2020

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Illustrazione di Guido Scarabottolo

Che ne sappiamo noi dell’amore?

(R. Carver, “Principianti”)

Un racconto del celebre scrittore americano Raymond Carver è una scena: due coppie sedute al tavolo conversano delle loro relazioni presenti e passate provando a dare una risposta alla domanda che dà il titolo al racconto stesso: Di cosa parliamo quando parliamo d’amore?

Senza voler svelare il finale, credo che sia facile immaginare che nessuno dei quattro personaggi arriva a una risposta definitiva.

Chi potrebbe, d’altro canto, affermare di sapere con certezza cos’è l’amore?

Ognuno di noi ne ha una propria idea, figlia delle proprie speranze e paure, di ciò che vive giorno per giorno, di ciò che ha imparato nella propria vita a chiamare amore.

Eppure, nonostante questo sentimento sia tanto personale e intimo, è comune trovarci a pensare: è giusto il mio modo di amare? È come quello degli altri, o è diverso? Sono come gli altri, o sono diverso?

Questi dubbi così netti portano spesso con sé vissuti difficili, come la paura di scoprirci diversi da chi vorremmo essere, o la colpa nel non essere stati “capaci” di fare ciò che “si doveva”, o ancora la sofferenza nel sentirci sbagliati.

Per questo anche la psicoterapia spesso parla di relazioni e d’amore: perché è nelle relazioni che emergono alcune sofferenze, ed è grazie alle relazioni che scegliamo di metterci mano.

Così per poterne parlare, ognuno di noi scopre di avere un proprio vocabolario, dei propri significati, dei modi tutti personali di raccontare, ricordare, vivere i propri amori.

Così possiamo scoprirci più complessi di quanto pensavamo, e magari ritroviamo qualcosa che ci piace e qualcosa che vorremmo lasciar andare. Magari vediamo con più chiarezza ciò che speriamo, ciò che ci aspettiamo, ciò che temiamo. Magari scopriamo che, nella nostra particolarità, anche se il nostro modo di stare assieme agli altri può cambiare, i nostri modi di amare rimangono legittimi, proprio perché sono i nostri. E magari, smettiamo di cercare una risposta definitiva alla domanda di Raymond Carver, ma iniziamo a concederci la libertà di riformularla, per dare spazio a ciò che sentiamo:

Di cosa parliamo quando parliamo di amori?

Alessandro Busi
Mestrino, Padova e su Skype

Provavamo a proteggerci a vicenda

9 ottobre 201718 marzo 2020

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Immagine del progetto Humans of New York di Brandon Stanton. Qui l’originale e qui sulla pagina Facebook

Humans of New York è un progetto artistico di Brandon Stanton. L’idea è semplice, ma la realizzazione è assai più complessa: immortalare una persona e raccoglierne uno scampolo di storia. Credo che la capacità di Stanton sia quella di dare valore ai frammenti che le persone vogliono condividere con lui, con il coraggio di mettersi di fronte e dentro ai loro dolori come alle loro gioie.

Quando lessi la storia di questa ragazza sotto la neve, mi colpì la sua intensità.

“Io e mia madre siamo sempre state molto unite, ma dopo la morte di mio padre dovemmo re-imparare a comunicare. Intraprendemmo una terapia. Avevamo smesso di essere oneste l’una con l’altra. La malattia di mio padre era stata così difficile che non volevamo creare ulteriori preoccupazioni: provavamo a proteggerci a vicenda. Non avremmo mai ammesso di avere una brutta giornata, o di sentirci depresse. La risposta era sempre: Sto bene. Ma non stavamo bene, ed era ovvio. Ci preoccupavamo l’una per l’altra, in continuazione, e ciò causò molti stress e litigi. Dovevamo re-imparare a dirci quando avevamo una brutta giornata, perché non puoi mai sapere se veramente una persona sta bene, finché non gli permetti di raccontarti quando sta male”.

Queste parole sono al contempo intime e comuni.

Quanto spesso capita di evitare di dire qualcosa che ci affligge a una persona a cui vogliamo bene, nella speranza di proteggerla dalle nostre preoccupazioni?

L’intento è nobile, si potrebbe dire, ma il risultato è spesso diverso da quello che auspicavamo.

Il risultato è spesso contribuire a creare preoccupazioni ancora più grandi, aiutate da un’atmosfera del tipo non parliamone, che ingigantisce ciò che vorremmo non ci fosse.

Come mai?

In questa abitudine, succede che noi smettiamo di chiederci Come mi sento a tenere le mie preoccupazioni solo per me?, smettiamo di chiederci Come si sente la persona che ho accanto se smetto di raccontarmi con lei/lui?, e ancora Cosa succede nella nostra relazione se non abbiamo più la libertà di raccontarci? Di raccontare anche ciò che ci fa soffrire?. Diamo per scontato come l’altro si sentirà e come noi ci sentiremo, il tutto nel tentativo di proteggere e proteggerci da qualcosa di doloroso.

Come può essere utile una psicoterapia?

La psicoterapia è anche questo: avere uno spazio in cui sperimentare cosa succede se raccontiamo a qualcuno ciò che ci affligge.

Se ne andrà? Mi vorrà correggere? Mi sgriderà?

Queste sono alcune delle domande che le persone si pongono prima di un esperimento simile. Invece, ciò che spesso succede è che si scopre che l’altra persona rimane, che il nostro dolore non è solo dicibile, ma anche esplorabile, a volte perfino con qualche sorriso.

Ciò che succede è che si scopre che il nostro dolore possiamo provare a condividerlo anche con chi ci sta più vicino, che le loro spalle e le nostre sono più larghe di quanto ci aspettassimo, che assieme possiamo portare pesi reciproci, in una strada meno perfetta di quanto sognavamo, ma molto più vivibile.

Alessandro Busi
Mestrino, Padova e su Skype

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