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Alessandro Busi Psicoterapeuta Padova

Ogni vita merita un romanzo

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Tag: relazioni

Quando il gatto non c’è?

29 luglio 202229 luglio 2022Lascia un commento

Qualche giorno fa mi sono imbattuto in una vignetta di Christopher Weyant. Un topo dice all’altro, Odio ammetterlo ma, ora che il gatto è fuori, non so cosa fare con il mio tempo libero.
Il richiamo di Weyant è chiaramente al famoso detto dei topi che ballerebbero in assenza del gatto, ma sembra chiedere: siamo sicuri che succeda proprio così?
Non strappa il sorriso solo per il gioco con il modo di dire, ne richiama uno più amaro perché quella domanda sembra rivolgersi direttamente al lettore: quando il tuo gatto non c’è, cosa fai?
Potremmo riformularla domanda così: quando quello che consideri il tuo gatto sarà fuori, cosa farai?

La vignetta di Weyant apparsa nel numero del 25/7/22 del New Yorker

Se ci pensiamo, è un’esperienza comune quella di dirci che quando una data situazione smetterà di esserci, allora potremo iniziare a fare quello che desideriamo.
Quando sarò in ferie, farò.
Quando avrò abbastanza soldi, farò.
Quando mi sposerò, quando compirò trenta/quaranta/sessant’anni, quando avrò un figlio, quando avrò il lavoro xy… solo allora potrò.
È un’esperienza comune sentire di essere dentro dei vincoli percepiti come troppo stretti, così stretti da impedire ogni movimento nel presente, se non nella possibilità di fantasticare. Fantasticare serve a immaginare il possibile che sarà possibile, serve a pianificare, o anche solo a dare corpo mentale a dei desideri che rimarranno tali; di certo permette di spostare dentro un futuro inaccessibile alcune cose che vorremmo e che al contempo ci spaventano, non per nostra volontà, ma – per stare nella vignetta – per la presenza del gatto.

Questo funziona fino a che succede qualcosa.
Alle volte è Il gatto che se ne va (es. le ferie iniziano, i soldi ci sono, il matrimonio avviene), altre volte arriva uno scossone nella vita – una pandemia, un compleanno… ognuno ha le proprie pietre miliari – che trasformano il modo di vivere il tempo, per cui quello spostamento nel futuro, da rassicurante diventa insostenibile.
Le ragioni per cui rimandavamo ci sembrano meno significative.
La prospettiva del domani toglie il respiro perché è diventata fattibile e perciò irraggiungibile.
D’altro canto, anche l’idea di scegliere quella cosa rimandata per tanto tempo è a sua volta insostenibile, perché, se la rimandavamo, avevamo – più e meno consapevolmente – delle ragioni: magari ci spaventano i cambiamenti che potrebbe implicare, quelli che potrebbe portare nelle relazioni che viviamo, come si sconvolgerebbe la nostra vita.
Quindi, quando il gatto non c’è, possiamo trovarci dentro esperienze di ansia, dentro l’insofferenza per la ripetizione di comportamenti che non ci piacciono e che non troviamo più ragionevoli, possiamo chiuderci, sentendo di non avere alternative da percorrere.

Ma allora basta agire!
Questa è la reazione che viene più facile pensare.
Se non ti piace come vivi, cambia!
Spesso troviamo online pagine che ci danno ingiunzioni di questo tipo. Liberati delle persone che non ti piacciono! Fai solo quello che desideri! Non procrastinare! Non rimandare! e via dicendo.
Non entro nella bontà in sé delle idee, metto una domanda: se fosse così facile, non lo faremmo già?
Se il topo della vignetta avesse facilità a scegliere di ballare o fare quello che desidera o capire quello che desidera, non parlerebbe con l’amico con quell’espressione allarmata più che preoccupata, banalmente: agirebbe.
Allo stesso modo ognuno di noi – più e meno consapevolmente – percorre la strada che trova più percorribile per sé, che non vuol dire sia sempre quella che desidera, o che aveva sognato, ma quella nella quale sente di poter camminare in quel momento della sua vita, a partire dal suo modo di vedere il mondo, le relazioni, se stesso.

Illustrazione di Gordon Johnson

Spesso succede che in psicoterapia arrivino persone che si sentono strette dentro questa morsa: da un lato, una vita così tanto spesa ad aspettare che il gatto uscisse da non sapersi pensare in modo diverso da “persona che aspetta che il gatto se ne vada”; dall’altro, sentirsi colpevole di non riuscire a seguire i buoni consigli ricevuti e i desideri che sente propri: è vero, sarebbe così semplice, perché non ci riesco?
E questa morsa si alimenta con il tempo che passa, che giorno dopo giorno dà vigore alle sensazioni di incapacità e di mancanza di alternative che dicevamo prima.
Per questa ragione, il lavoro in terapia può servire come spazio per capire cosa sta succedendo, dare rilevanza ai propri paure-speranze-desideri-rabbie…, recuperare il senso più ampio possibile che ha per noi stare in una situazione anche se fa soffrire e aver costruito i compromessi della nostra vita, ricostruire il gatto e la sua ossatura per dare significato al legame che abbiamo vissuto con lui negli anni, comprendere cosa immaginiamo per noi e per le relazioni che amiamo quando pensiamo di fare cose diverse; e da lì, se e quando sarà possibile, con i tempi che ognuno sente per sé percorribili, prendere in mano queste scelte e chiederci: ok, il gatto ha fatto parte della mia vita, ha avuto un ruolo significativo, anche con la sua presenza ho scritto questa storia. Ora che non c’è più, cosa mi sento di fare?

Alessandro Busi
Psicologo e psicoterapeuta
a Padova, Mestrino e online

Verso la fine dell’anno. Che anno?

15 dicembre 202013 dicembre 2020
Particolare della copertina del calendario 2020 di Guido Scarabottolo

È dicembre inoltrato e ci stiamo quindi muovendo verso la fine del 2020.
“Per fortuna!”, aggiungeranno molti.
È comprensibile, perché – dico una banalità – il 2020 ha messo a soqquadro le nostre vite. Chi, a gennaio, avrebbe potuto immaginare quello che sarebbe successo da lì a pochi giorni?
Se qualcuno ci avesse detto: non vi abbraccerete, non vi darete la mano, girerete sempre con indosso una mascherina, gli avremmo fatto i complimenti per la fantasia e gli avremmo consigliato di scriverci un bel libro di fantascienza, ma chi gli avrebbe creduto?
E invece eccoci qui, a sfruttare più che possiamo quella che molti etologi sostengono essere la migliore qualità dell’essere umano: la capacità di cambiare le proprie abitudini, per adattarsi all’ambiente che lo circonda.
Cambiare abitudini, però, dovrebbe essere un processo graduale, perché le abitudini, se le abbiamo costruite negli anni, vuol dire che per noi avevano un senso, quindi, modificarle implica modificare anche il nostro modo di vedere e stare al mondo.
Con la gradualità è possibile (e sottolineo possibile) che ci percepiamo attori protagonisti di questo processo, per cui sentiamo che anche le nuove abitudini hanno senso; altrimenti, è più probabile che viviamo questi cambiamenti come una strozzatura della nostra libertà di scelta, che si assoggetta a un mondo esterno che non avevamo mai sentito così opprimente.
Che sia questa la pandemic fatigue (fatica da pandemia) di cui tanto si parla? Non lo so. Di certo, non stiamo parlando di un’etichetta astratta, ma di cose molto concrete: pensieri, preoccupazioni, difficoltà a prevedere il futuro che abbiamo davanti; ansia, dolore, paura; modi di stare assieme, modi di stare in famiglia, in coppia, con gli amici; l’importanza del lavoro e degli hobby, le uscite del sabato, il nostro rapporto con la tecnologia, il nostro rapporto con i soldi… e potrei proseguire così a lungo da annoiarci.

Sono convinto che parte della difficoltà a stare dentro questo periodo – accanto al nostro esserci scoperti vulnerabili – nasca dal rapporto con la libertà e con le relazioni.
Il cambiamento più grande dentro il quale ci troviamo, infatti, è proprio la necessità di considerare che non siamo liberi al cento per cento, ma ogni nostra scelta, azione, è frutto di compromesso. Ma prima della pandemia, non era già così? Io credo di sì, solo che, nel mondo per come eravamo abituati a conoscerlo prima di marzo 2020, tutto rientrava nella normalità delle cose.
Quante volte, più o meno consapevolmente, ci siamo per esempio chiesti: “preferisco comportarmi in questo modo che desidero, avendo la sensazione di deludere chi mi vuole bene, oppure in quest’altro, deludendo il mio desiderio, ma sperando di fare contente le persone che amo? E chi mi sento di essere se scelgo una strada invece che l’altra?“
Ognuno di noi ha costruito la propria vita per esperimenti e aggiustamenti, per compromessi, e i compromessi possono essere tanto meno dolorosi, quanto più sentiamo che per noi hanno senso. Il che non significa che siamo sempre andati nella direzione che desideravamo, no, ma che, anche quando ci siamo rassegnati, siamo stati noi a rassegnarci e quella rassegnazione ci ha visti attori protagonisti.
Non credo che fare ciò sia facile, anzi, e spesso la psicoterapia è anche questo spazio, lo spazio nel quale ricostruire il senso delle scelte fatte, delle emozioni vissute, sperate ed evitate, per sentire che la nostra vita ha un respiro ampio e per poterci chiedere: pur all’interno dei vincoli della mia vita, che direzione mi sento di prendere da qui?

Dicevamo che il 2020 sta volgendo al termine.
Per molti la chiusura di un anno è un momento nel quale fare il punto. Fare il punto di un anno così, però, è difficile, quindi potrebbe essere forte la tentazione di chiudere gli occhi e sperare che il 2020 finisca e porti via con sé tutto.
Purtroppo, e lo sappiamo tanto bene quanto lo speriamo, non andrà così. I nuovi vincoli che il mondo attorno ci pone li troveremo a gennaio e nei mesi a venire. Cambieranno, cambieremo, ma non scompariranno, quindi dovremo ancora farci i conti, proprio come abbiamo fatto fino a ora.
Un’alternativa che abbiamo per poterci aprire a un 2021 nel quale sentirci un po’ più capaci di surfare sopra questo mare mosso, provando a non farci sommergere dal caos o a dare un senso al nostro eventuale sommergerci, potrebbe essere quella di riguardare al 2020 e chiederci: dentro a tutto questo, cosa ho fatto? E quando ce lo chiediamo, fare uno sforzo per andare a fondo. Così, per esempio: sì, facevo il pane, ma mentre facevo il pane, cosa facevo?
Potremmo scoprire che, mentre facevamo il pane, ci stavamo coccolando, speravamo fosse un modo per prenderci cura delle persone a cui vogliamo bene, ci stavamo sforzando a costruire una routine nuova che ricostruisse una prevedibilità nelle giornate senza le uscite di casa, e chissà cos’altro.
In questo modo non scomparirà l’impatto emotivo, anche doloroso, di questo periodo, ma sono convinto che, più aspetti ci sentiamo di esplorare in questo modo, più possiamo scoprire che anche questo 2020 lo abbiamo vissuto, non nel modo che speravamo a gennaio, ma comunque dando la nostra impronta, anche la nostra impronta. Quindi possiamo chiederci: che impronta ho dato a questo 2020?

Alessandro Busi
psicoterapeuta a Padova, Mestrino e su Skype

La riscoperta delle parole #5: relazione

22 aprile 202022 aprile 20204 commenti

possiamo_copertina

particolare della copertina di “Possiamo salvare il mondo, prima di cena” di Johnatan Safran Foer

La parola di oggi la riscopriamo* grazie all’iniziativa #NoiRestiamoInContatto della Scuola di Psicoterapia Costruttivista Icp di Padova: una serie di video di vari professionisti sanitari – psicologi e non – che esplorano il periodo che stiamo vivendo da punti di vista diversi.

Il contributo che ho provato a dare ruota attorno alle storie che raccontiamo di noi e degli altri, agli eroi che volevamo essere e a quelli che potremmo essere, partendo dal presupposto che in questo periodo stiamo riscoprendo una parola più di tutte: relazione.

Di seguito trovate il video e poi il testo che mi ha fatto – più o meno – da traccia.

Buongiorno a tutti, sono Alessandro Busi e sono uno psicologo e psicoterapeuta e, di fianco all’attività clinica, mi occupo anche di scrittura, di narrazioni.

Per questo tendo a ragionare per parole, quindi, quando mi è stato proposto di partecipare all’iniziativa “Noi restiamo in contatto”, mi sono chiesto quale parola stesse segnando più di altre questo periodo, e mi sono risposto: relazione.

Non mi riferisco solo al contraltare dell’isolamento, ma ne farei un discorso più ampio.

Partiamo da una domanda: come è successo che abbiamo imparato a considerare l’autonomia e la singolarità come contrapposte alle relazioni, come se le due cose si escludessero a vicenda?

Guardiamo alla nostra storia, l’idea di eroe solitario ci accompagna da Ulisse contro Polifemo, Il vecchio di Hemingway che affronta il marlin, la self made woman Miranda di Sex and the City, il rapper Tupac Shakur che intitolò il suo terzo disco Me against the world. Ma, anche ammesso che siano eroi solitari, la domanda di prima rimane: questo essere eroi solitari li rende estranei alle relazioni?

Tempo fa leggevo un libro di Jonathan Safran Foer, Possiamo salvare il mondo, prima di cena, che quasi all’inizio parla del Libro dei finali secondo il quale ogni respiro che facciamo conterrebbe una piccola parte di tutti i respiri della storia della mondo: Giulio Cesare, Napoleone, i mammut, la nostra maestra dell’asilo… tutti, attuali e passati. Foer poi dice: “A ogni ispirazione assorbivo la storia della vita e della morte sulla terra. Questo pensiero mi offriva una veduta aerea della storia: un’ampia rete fatta di un unico filo”.

Ecco, questa immagine della rete fatta da un unico filo mi è spesso tornata in mente in questo periodo perché rende bene la responsabilità del nostro ruolo individuale dentro un tessuto di relazioni; ci dice stare in relazione non è opposto a essere individui, ma anzi, proprio perché esistiamo come singoli, singoli nodi della rete, siamo interconnessi con gli altri.

Credo che l’esperienza che stiamo facendo di questo virus ci stia inchiodando proprio alla nostra condizione di esseri viventi in relazione – tutte: ristrette, online, cliniche, lontane, vicine, immaginate, solitarie, fra persone, economiche, fra età, fra specie…:

  • quando pensiamo “potrei essere venuto in contatto con il virus?” e allora scopriamo la miriade di persone con le quali siamo collegati in pochi passaggi;
  • quando sperimentiamo l’utilità e la fatica dell’isolamento sociale, che ha ricadute così ampie che a volte facciamo fatica perfino a convincerci che sia vero;
  • Quando ci ricordiamo che siamo ammalabili, quindi che potremmo noi stessi avere bisogno delle cure di qualcuno.

Bene, ma cosa possiamo farcene di queste nuove consapevolezze? Io immagino almeno tre strade, tutte e tre umanamente molto comprensibili:

  • Possiamo reagire con rabbia, obbligarci a tornare a vivere con le stesse convinzioni individualista di sempre, che però ora sono accompagnate dalla sensazione di fragilità, quindi, più ci aggrappiamo, più le sentiamo sgretolarsi, quindi più abbiamo paura che possano non reggere;
  • Possiamo rassegnarci, sentirci inermi, in balia del destino, stavolta la paura sarà diversa, più vicina al terrore, il terrore di chi sente che basta un colpo d’aria per cambiare tutto;
  • Possiamo concepire che abbiamo paura, ansia, panico e terrore; possiamo concepire che ci sono alcune cose che di questa quarantena ci piacciono, e che questo, magari, ci fa sentire in colpa; possiamo concepire che siamo arrabbiati perché sentiamo che ci toccherà cambiare il nostro modo di vivere, rimodulare le speranze su cui avevamo puntato. Possiamo dare spazio alla portata emotiva di questa delusione e poi, se ce la sentiremo, quando ce la sentiremo, potremo chiederci:
    Bene, cosa possiamo fare?
    Chi vorrei e chi mi sento e chi ho paura di essere con gli altri?
    Chi mi piacerebbe e chi ho paura che gli altri siano con me?
    E così via, provando insomma a chiederci: in quali altri modi possiamo stare dentro quella rete a filo unico?

Io non so la risposta a queste domande, e credo anzi che in questo periodo circolino fin troppe risposte e ricette su come dovremmo vivere questo tempo difficile. Quello di cui sono convinto, invece, è che questo virus stia precipitato dentro le biografie di tutti noi e che quindi spetti a ognuno di noi porci queste domande e assieme dare spazio a quello che sentiamo, così da permetterci di costruire, da soli e quindi assieme, delle nuove storie, dei nuovi miti e dei nuovi eroi che vorremmo e essere.
Non è semplice, ma può valerne la pena, perché, di fronte a un cambiamento così grande, quello che siamo chiamati a fare è proprio far ripartire le storie: da qui, che tipo di eroi possiamo essere.

Alessandro Busi

*Le precedenti parole de La riscoperta delle parole sono: attesa, quasi, vulnerabilità e come se.

Il segreto di un matrimonio felice è sapere come litigare

10 febbraio 202018 marzo 2020

Due anni fa lessi questo articolo del New York Times e pensai che sarebbe stato bello tradurlo per il blog. Vai a capire perché, non l’ho mai fatto, fino a oggi.

In questo breve pezzo la psicoterapeuta californiana Daphne De Marneffe entra nelle dinamiche di coppia e in quello che per molti è un tabù: una coppia felice può litigare?

Nei miei colloqui di psicoterapia lo spazio per il litigio, anche per la rabbia, nelle relazioni è una tematica che torna spesso, quindi vi propongo alcuni stralci dell’articolo perché credo dia una prospettiva interessante.

Alessandro Busi
Padova, Mestrino e su Skype

Jing wei

Immagine di Jing Wei presa dall’articolo originale del New York Times

Il segreto di un matrimonio felice è sapere come litigare

Quando le coppie passano da sussurrarsi cose dolci ai preparativi del matrimonio, le loro teste sono occupate da scadenze, cose da fare, incombenze. La loro attenzione sarà catturata dal Grande Giorno, non da cosa succede dopo.

E perché no? Le coppie comprensibilmente vogliono assaporare la loro gioia elettrizzante. Il sociologo Andrew Cherlin sostiene che il matrimonio sia passato da svolta a fondamento della vita adulta. Quindi, sono meno un passo per la coppia e più uno spettacolo del proprio “sono arrivato”.

Questo “matrimonio fondamenta” ci spiega perché questa decisione porti con sé una grande quantità di stress e intensità, e perché poi ci si aspetti che anche le routine familiari seguano lo stesso schema perfetto. Non è così […]. Spesso vedo coppie il cui congelato matrimonio di 17 anni inizia a sciogliersi quando riescono a dirsi cose difficili, ma che devono essere condivise.

I fidanzati devono pianificare il matrimonio. Ma mentre pensano al grande giorno, dovrebbero anche pensare a come affronteranno i loro disaccordi. Abbiamo costruito l’amore e il matrimonio in un modo così ideale che le persone sono spaventate di pensare quanto può essere complesso.

Prendiamo l’esempio dei soldi, una fonte di tensione nel matrimonio, da sempre. Tre quarti delle coppie pagano più di quello che volevano per il giorno del matrimonio. […] Ma le decisioni legate ai soldi non smettono mai di essere sfidanti. Sento molte coppie discutere perché uno dei due sente che l’altro è un ostacolo, invece di notare che è la vita stessa a presentare ostacoli. Le scelte economiche devono essere prese tenendo presente le idee dell’atro, che spesso saranno in disaccordo con le proprie. Per questo molti decidono di non parlarne apertamente, e covano in silenzio.

Una volta, in un ristorante, sentii una giovane donna annunciare al suo partner che aveva deciso di lasciare il lavoro per occuparsi del matrimonio. Ci fu un silenzio straziante. Qualcosa doveva essere detto – perché non me ne hai parlato prima?. Invece, lui rimase in silenzio.

Le persone che lavorano in terapia con le coppie, spesso parlano del bisogno di costruire una “storia di coppia”, ma, se le coppie iniziano a collaborare, devono anche prevedere come avere conversazioni utili, e le conversazione, a differenza dei monologhi, possono essere molto dure.

Nella nostra cultura avversa al conflitto, spesso non prendiamo queste capacità di litigare come parte dell’amore. Ho visto però che i matrimoni migliori coinvolgono persone che fronteggiano emozioni negative […]: non rinnegano la rabbia, ma nemmeno la vivono con soddisfazione; affrontano le cose in modo forte senza smettere di prestare ascolto; chiedono scusa se fanno qualcosa di male.

Quello che conta in un matrimonio è ciò che rendiamo possibile oltre al rossore iniziale: conversazioni che siano profonde, intime e sincere. Non ci incontriamo attraverso una comprensione mistica: ci innamoriamo con la passione, poi realizziamo l’amore attraverso continue conversazioni.

Con quelle discussioni coltiviamo l’attitudine emotiva essenziale del matrimonio: io posso capire ciò che pensi e senti, senza che ciò mi privi della mia esperienza. La tua realtà non cancella la mia.

Tutto questo può sembrare noioso o di poco conto nella lista delle cose da fare, ma nella vita di coppia le emozioni chiedono tempo.
L’artista Georgia O’Keefee disse: “nessuno vede un fiore – veramente – è troppo piccolo e richiede tempo – non abbiamo tempo – ma vedere richiede tempo, come avere un amico richiede tempo”. Quello che molti cercano in un matrimonio è avere un amico intimo. La chiave per un amore duraturo è prendersi il tempo di capire e decidere cosa fare.

Il giorno del matrimonio è una celebrazione di un giorno, ma la vita di matrimonio è una processo senza finale scritto di incomprensioni da sciogliere. Quindi auguro a tutti i nuovi fidanzati una grande gioia. Ma auguro anche che, fra catering e inviti, si prendano una paura per pensare come litigano e come vogliono parlare.

Di cosa parliamo quando parliamo di amori?

15 febbraio 201818 marzo 2020

Scarabottolo_1

Illustrazione di Guido Scarabottolo

Che ne sappiamo noi dell’amore?

(R. Carver, “Principianti”)

Un racconto del celebre scrittore americano Raymond Carver è una scena: due coppie sedute al tavolo conversano delle loro relazioni presenti e passate provando a dare una risposta alla domanda che dà il titolo al racconto stesso: Di cosa parliamo quando parliamo d’amore?

Senza voler svelare il finale, credo che sia facile immaginare che nessuno dei quattro personaggi arriva a una risposta definitiva.

Chi potrebbe, d’altro canto, affermare di sapere con certezza cos’è l’amore?

Ognuno di noi ne ha una propria idea, figlia delle proprie speranze e paure, di ciò che vive giorno per giorno, di ciò che ha imparato nella propria vita a chiamare amore.

Eppure, nonostante questo sentimento sia tanto personale e intimo, è comune trovarci a pensare: è giusto il mio modo di amare? È come quello degli altri, o è diverso? Sono come gli altri, o sono diverso?

Questi dubbi così netti portano spesso con sé vissuti difficili, come la paura di scoprirci diversi da chi vorremmo essere, o la colpa nel non essere stati “capaci” di fare ciò che “si doveva”, o ancora la sofferenza nel sentirci sbagliati.

Per questo anche la psicoterapia spesso parla di relazioni e d’amore: perché è nelle relazioni che emergono alcune sofferenze, ed è grazie alle relazioni che scegliamo di metterci mano.

Così per poterne parlare, ognuno di noi scopre di avere un proprio vocabolario, dei propri significati, dei modi tutti personali di raccontare, ricordare, vivere i propri amori.

Così possiamo scoprirci più complessi di quanto pensavamo, e magari ritroviamo qualcosa che ci piace e qualcosa che vorremmo lasciar andare. Magari vediamo con più chiarezza ciò che speriamo, ciò che ci aspettiamo, ciò che temiamo. Magari scopriamo che, nella nostra particolarità, anche se il nostro modo di stare assieme agli altri può cambiare, i nostri modi di amare rimangono legittimi, proprio perché sono i nostri. E magari, smettiamo di cercare una risposta definitiva alla domanda di Raymond Carver, ma iniziamo a concederci la libertà di riformularla, per dare spazio a ciò che sentiamo:

Di cosa parliamo quando parliamo di amori?

Alessandro Busi
Mestrino, Padova e su Skype

Domande che possiamo farci

16 gennaio 201718 marzo 2020

rothman

Illustrazione di Julia Rothman

Uno degli articoli più letti nel 2016 del New York Times si intitola “13 Questions To Ask Before Getting Married”, ovvero: 13 domande da fare prima di sposarsi.

Pur sottolineando che le domande potrebbero essere molte, molte e molte ancora, queste sono quelle che la scrittrice Eleanor Stanford consiglia nell’articolo:

  1. Quando c’erano dei disaccordi, la tua famiglia lanciava i piatti, discuteva con calma, o faceva finta di nulla?

  2. Avremo dei figli? E se li avremo, cambierai i pannolini?

  3. Le esperienze con i nostri ex ci aiuteranno o ci bloccheranno?

  4. Quanto è importante la religione per te? Come celebreremo le feste, se lo faremo?

  5. Sono i miei debiti i tuoi debiti? Saresti disposto a salvarmi finanziariamente?

  6. Qual è la cifra massima che spenderesti per un’automobile, per un divano e per un paio di scarpe?

  7. Ti sta bene che io faccia cose senza di te?

  8. Ci piacciono i rispettivi genitori?

  9. Quanto è importante il sesso per te?

  10. Quanto ci possiamo permettere di flirtare con altre persone? Va bene guardare la pornografia?

  11. Conosci tutti i modi con cui dico ti amo?

  12. Cosa ammiri di me e quali sono le tue fissazioni?

  13. Come ci vedi fra dieci anni?

Il principio con il quale l’autrice ha scelto queste domande, talvolta strane, talvolta molo personali, è quello per cui è meglio discutere, mostrare i vari aspetti di sé prima di sposarsi, per evitare di sentirsi poi in dovere di mantenere segreti sempre più incontenibili.

Senza giudicare l’utilità o meno di queste domande – penso che ogni coppia possa trovare quelle importanti per la propria relazione –, durante la lettura mi sono chiesto quante di queste domande faremmo, prima che al partner o alla partner, a noi stessi e, se ce le facciamo, quanto sinceramente siamo disposti a risponderci.

Metterci davanti a ciò che speriamo, temiamo, ci aspettiamo dalla nostra vita fra dieci anni, per esempio, potrebbe essere difficile, doloroso e magari sorprendente. Potrebbe metterci davanti a strade che vorremmo percorrere, ma non stiamo percorrendo. Potrebbe “costringerci” a riconoscere che quello che stiamo vivendo ci piace, potremmo perfino scoprirci soddisfatti! Chi può dirlo.

E allora potremmo prendere spunto da questo articolo per pensare quali domande potremmo farci e a quali sentiamo che rispondere ci metterebbe a disagio; per decidere quali segreti vorremmo smettere di tenere, quantomeno con noi stessi.

Alessandro Busi
Mestrino, Padova e su Skype

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3275389290 alessandrobusi.psy@gmail.com

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