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Alessandro Busi Psicoterapeuta Padova

Ogni vita merita un romanzo

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Finire e cambiare: guardando al tempo con gli occhi dei camaleonti.

22 dicembre 2022Lascia un commento

Il primo colloquio in privato: due poltrone poco distanti (eravamo ad anni e anni dalle attenzioni sviluppate con l’arrivo del covid), un tavolino, due persone che si parlano: un paziente e un terapeuta.
Era maggio, il sole non entrava diretto – in quello studio entrava solo alla mattina.
Negli anni, in quella stanza, sarebbero passate tante storie, lacrime, risate, desideri di cambiare e paura di farlo; persone.

La scorsa settimana ho svolto il mio ultimo colloquio nello studio di Mestrino.
Da gennaio 2023 mi dedicherò interamente allo studio di Padova.
Complici tutte le faccende che si devono fare quando si lascia uno spazio, avevo sottovalutato la portata di questo cambiamento; fino a quando ho iniziato a spegnere le luci.
Come le costellazioni fosforescenti che si appiccicano nelle camerette dei bambini, mi sembrava di poter leggere sulle pareti le frasi pronunciate, le emozioni sperimentate, le prime parole dette e i saluti alla fine dei percorsi; vedevo il tempo procedere al contrario nella ricostruzione delle persone che in questi anni mi avevano dato la fiducia della terapia.
No, non era un cambiamento da poco. 
E proprio perché non era un cambiamento da poco, ne ero ancora più convinto, perché i movimenti importanti non possono che portare con sé eccitazione verso il nuovo e paura di aver perso il conosciuto.

***

Vygotskij era uno psicologo russo. Erano gli anni in cui i russi venivano ancora chiamati sovietici, perciò la sua teoria dello sviluppo ebbe poco successo in occidente, fino a che non fu riscoperta prima da Piaget e poi Bruner, che lo avrebbero consacrato come uno dei maestri.
Un architrave del suo pensiero è l’idea di Zona di sviluppo prossimale, ovvero l’idea per la quale noi acquisiamo una conoscenza nuova nel momento in cui abbiamo le strutture cognitive per assimilarla cambiando le strutture cognitive stesse, in un continuo processo di ricostruzione. 

Se ci pensiamo è un’idea tanto semplice quanto rivoluzionaria. Più in generale lui capì che, come persone, andiamo incontro ai cambiamenti che ci sentiamo di poter reggere.
Questo principio, portato nella psicoterapia, comporta che cambiare, per quanto ci piacerebbe, non è un percorso lineare, ma un filo intricato di tentativi, passi di lato, nuovi tentativi, esperimenti di cui nemmeno ci accorgiamo, ritorni a vecchie abitudini, aperture a nuove possibilità… perché cambiare significa ricostruire l’idea che abbiamo di noi, modificare la nostra storia personale, il modo di pensarci, entrare in nuove zone di sviluppo prossimale quindi affacciarci a ulteriori cambiamenti.

***

Dando le mandate alla porta dello studio di Mestrino, mi sono reso conto che stavo anche chiudendo una fase della mia vita professionale in favore di una nuova, in cui stabilità locativa e sperimentazione terapeutica avrebbero danzato in modo nuovo, dandomi accesso alla domanda: che possibilità si aprono da qui?
Mi sono reso conto che questo cambiamento è stato prima un pensiero vago, poi un desiderio che faceva paura, poi una prospettiva lontana che si è trasformata in possibilità percorribile quando mi sono sentito di avere le spalle per viverla.

Mi sono chiesto, scendendo le scale e ampliando lo sguardo, quante volte, come persone, incolpiamo i noi del passato di non essere stati coraggiosi, senza provare a ricordarci chi eravamo in quel momento, come ci faceva sentire la prospettiva di, che ne so, cambiare lavoro, relazione sentimentale, idea di noi stessi…

Per questo, pensando alla fine dell’anno come a un momento di sguardo da camaleonti, con gli occhi apparentemente autonomi ma collegati uno al passato e uno al futuro, mi sento di augurare di poter guardare alla propria storia con una quota di comprensione umana, che permetta di prendere in mano il futuro chiedendosi: cosa mi sento di vivere di quello che desidero?
Non sempre è facile, alle volte la psicoterapia serve proprio a darsi la possibilità di rispondere a quella domanda, in modo che nella vita possiamo costruire una storia piena di senso, che, quando ce la sentiamo, ci faccia sentire liberi di cambiare.

Alessandro Busi
psicologo e psicoterapeuta
a Padova e online

La riscoperta delle parole #12: Storia

14 marzo 202112 marzo 2021

In questi mesi mi è successo di ascoltare alcuni podcast dello storico Alessandro Barbero.
Il modo che usa per avvicinarci agli eventi storici è quello di focalizzarsi sul senso che aveva per le persone dell’epoca comportarsi in quello specifico modo. È una precisazione che fa spesso: non pretendete di guardare con gli occhi di oggi gli eventi e le persone del passato, se li si volete capire.
Perché Cavour spinse tanto per l’Unità d’Italia? Perché i soldati italiani accettarono di combattere a Caporetto? Perché scoppiò la rivoluzione francese?
Se vogliamo capirli dobbiamo provare a metterci nei desideri di Cavour, nelle aspettative dei soldati sul fronte della Grande Guerra, nella visione del mondo e della società che c’era in Francia alla fine del ‘700.

***

Una sensazione che molte persone raccontano in psicoterapia è questa: la paura di aver sprecato il proprio tempo, di non aver scelto quello che volevano ma, talvolta quello che dovevano, talvolta quello che la vita faceva capitare loro sotto i piedi.
Questa sensazione porta con sé un rosario di altre sensazioni che vanno dall’incolparsi, al sentire il peso del tempo che passa, al pensare di aver sbagliato, o peggio ancora di avere qualcosa di intrinsecamente sbagliato: perché tutti gli altri sono capaci di vivere e io no?
Questa visione apre purtroppo a uno scenario difficile da scardinare, perché è lo scenario nel quale sentiamo di non avere la possibilità di incidere in prima persona in quello che sembra essere un destino già scritto.

Un’altra sensazione ricorrente in terapia è però anche lo stupore; lo stupore di prendersi del tempo per chiedersi: ma io, questa vita, come l’ho costruita?
Lo stupore, a volte piacevole e a volte doloroso, di guardare al proprio tempo, alle emozioni provate, ai bivi di fronte ai quali ci si è trovati, e ridare senso alle scelte fatte, che magari non erano quelle più desiderate, ma di certo erano quelle più sensate in quel momento.
In questo modo, infatti, possiamo scoprire che non abbiamo vissuto la vita dei sogni, ma quella che, dentro tutte le asperità che ci sono toccate, ci siamo conquistati. Le occasioni sprecate potrebbero iniziare ad avere un senso, e così il tempo lasciato andare, le scelte che ci apparivano così sbagliate.
Allo stesso modo possiamo capire anche quello che ci sentiamo di fare e di non fare oggi, quello che vogliamo e quello che ancora ci fa troppa paura; e da lì immaginare strade alternative e aprirci, se e come ce la sentiamo, a nuove possibilità.
Perché, se per comprendere la peste del ‘300, come dice Barbero, dobbiamo entrare negli occhi di chi viveva all’epoca, come possiamo pretendere di capire la nostra vita senza dare valore alla nostra storia?

Alessandro Busi
psicologo e psicoterapeuta
a Padova, Mestrino e su Skype

Le precedenti parole riscoperte sono: attesa, quasi, vulnerabilità, come se, relazione, virtuale, anche, compromesso, concretezza, crisi e paura.

Verso la fine dell’anno. Che anno?

15 dicembre 202013 dicembre 2020
Particolare della copertina del calendario 2020 di Guido Scarabottolo

È dicembre inoltrato e ci stiamo quindi muovendo verso la fine del 2020.
“Per fortuna!”, aggiungeranno molti.
È comprensibile, perché – dico una banalità – il 2020 ha messo a soqquadro le nostre vite. Chi, a gennaio, avrebbe potuto immaginare quello che sarebbe successo da lì a pochi giorni?
Se qualcuno ci avesse detto: non vi abbraccerete, non vi darete la mano, girerete sempre con indosso una mascherina, gli avremmo fatto i complimenti per la fantasia e gli avremmo consigliato di scriverci un bel libro di fantascienza, ma chi gli avrebbe creduto?
E invece eccoci qui, a sfruttare più che possiamo quella che molti etologi sostengono essere la migliore qualità dell’essere umano: la capacità di cambiare le proprie abitudini, per adattarsi all’ambiente che lo circonda.
Cambiare abitudini, però, dovrebbe essere un processo graduale, perché le abitudini, se le abbiamo costruite negli anni, vuol dire che per noi avevano un senso, quindi, modificarle implica modificare anche il nostro modo di vedere e stare al mondo.
Con la gradualità è possibile (e sottolineo possibile) che ci percepiamo attori protagonisti di questo processo, per cui sentiamo che anche le nuove abitudini hanno senso; altrimenti, è più probabile che viviamo questi cambiamenti come una strozzatura della nostra libertà di scelta, che si assoggetta a un mondo esterno che non avevamo mai sentito così opprimente.
Che sia questa la pandemic fatigue (fatica da pandemia) di cui tanto si parla? Non lo so. Di certo, non stiamo parlando di un’etichetta astratta, ma di cose molto concrete: pensieri, preoccupazioni, difficoltà a prevedere il futuro che abbiamo davanti; ansia, dolore, paura; modi di stare assieme, modi di stare in famiglia, in coppia, con gli amici; l’importanza del lavoro e degli hobby, le uscite del sabato, il nostro rapporto con la tecnologia, il nostro rapporto con i soldi… e potrei proseguire così a lungo da annoiarci.

Sono convinto che parte della difficoltà a stare dentro questo periodo – accanto al nostro esserci scoperti vulnerabili – nasca dal rapporto con la libertà e con le relazioni.
Il cambiamento più grande dentro il quale ci troviamo, infatti, è proprio la necessità di considerare che non siamo liberi al cento per cento, ma ogni nostra scelta, azione, è frutto di compromesso. Ma prima della pandemia, non era già così? Io credo di sì, solo che, nel mondo per come eravamo abituati a conoscerlo prima di marzo 2020, tutto rientrava nella normalità delle cose.
Quante volte, più o meno consapevolmente, ci siamo per esempio chiesti: “preferisco comportarmi in questo modo che desidero, avendo la sensazione di deludere chi mi vuole bene, oppure in quest’altro, deludendo il mio desiderio, ma sperando di fare contente le persone che amo? E chi mi sento di essere se scelgo una strada invece che l’altra?“
Ognuno di noi ha costruito la propria vita per esperimenti e aggiustamenti, per compromessi, e i compromessi possono essere tanto meno dolorosi, quanto più sentiamo che per noi hanno senso. Il che non significa che siamo sempre andati nella direzione che desideravamo, no, ma che, anche quando ci siamo rassegnati, siamo stati noi a rassegnarci e quella rassegnazione ci ha visti attori protagonisti.
Non credo che fare ciò sia facile, anzi, e spesso la psicoterapia è anche questo spazio, lo spazio nel quale ricostruire il senso delle scelte fatte, delle emozioni vissute, sperate ed evitate, per sentire che la nostra vita ha un respiro ampio e per poterci chiedere: pur all’interno dei vincoli della mia vita, che direzione mi sento di prendere da qui?

Dicevamo che il 2020 sta volgendo al termine.
Per molti la chiusura di un anno è un momento nel quale fare il punto. Fare il punto di un anno così, però, è difficile, quindi potrebbe essere forte la tentazione di chiudere gli occhi e sperare che il 2020 finisca e porti via con sé tutto.
Purtroppo, e lo sappiamo tanto bene quanto lo speriamo, non andrà così. I nuovi vincoli che il mondo attorno ci pone li troveremo a gennaio e nei mesi a venire. Cambieranno, cambieremo, ma non scompariranno, quindi dovremo ancora farci i conti, proprio come abbiamo fatto fino a ora.
Un’alternativa che abbiamo per poterci aprire a un 2021 nel quale sentirci un po’ più capaci di surfare sopra questo mare mosso, provando a non farci sommergere dal caos o a dare un senso al nostro eventuale sommergerci, potrebbe essere quella di riguardare al 2020 e chiederci: dentro a tutto questo, cosa ho fatto? E quando ce lo chiediamo, fare uno sforzo per andare a fondo. Così, per esempio: sì, facevo il pane, ma mentre facevo il pane, cosa facevo?
Potremmo scoprire che, mentre facevamo il pane, ci stavamo coccolando, speravamo fosse un modo per prenderci cura delle persone a cui vogliamo bene, ci stavamo sforzando a costruire una routine nuova che ricostruisse una prevedibilità nelle giornate senza le uscite di casa, e chissà cos’altro.
In questo modo non scomparirà l’impatto emotivo, anche doloroso, di questo periodo, ma sono convinto che, più aspetti ci sentiamo di esplorare in questo modo, più possiamo scoprire che anche questo 2020 lo abbiamo vissuto, non nel modo che speravamo a gennaio, ma comunque dando la nostra impronta, anche la nostra impronta. Quindi possiamo chiederci: che impronta ho dato a questo 2020?

Alessandro Busi
psicoterapeuta a Padova, Mestrino e su Skype

La riscoperta delle parole #10: crisi

5 ottobre 20204 ottobre 2020

Crisi è una parola di uso comune. Quando parliamo di clima, per esempio, come quando parliamo di economia, di sanità o di politica. In tuti questi contesti indica qualcosa che vorremmo evitare. 
Chi potrebbe mai desiderare un’altra crisi sanitaria?

Da alcuni anni, si fa un uso un po’ diverso della parola crisi nel mondo della psicologia divulgativa. Potremmo riassumerlo così: è importante abbracciare la crisi.
L’idea di fondo è che, senza una crisi personale, le persone non sono disposte a cambiare le proprie abitudini, anche quelle che le fanno soffrire, perché noi esseri umani preferiamo una vita dolorosa che conosciamo, rispetto a una potenzialmente più in linea con i nostri desideri, ma che non sappiamo se può esistere per davvero. Quindi dobbiamo essere contenti di essere in crisi.
Perfetto. Eppure mi chiedo: se una crisi è una crisi, ovvero un momento in cui le nostre certezze – magari non tutte ma molte – smettono di funzionare, un momento in cui non ci fidiamo più di noi stessi e quindi abbiamo paura a scegliere anche le cose più piccole, come possiamo pensare anche di doverla accogliere fin da subito, come si suol dire, come una bella opportunità?

Spesso in psicoterapia arrivano persone che vivono momenti di crisi personale, di coppia, familiare; persone che provano paura, vergogna, rabbia; persone che si guardano indietro e si incolpano per ciò che hanno e non hanno fatto, che sentono di voler cambiare, ma temono di intaccare equilibri – seppur dolorosi – faticosamente costruiti in una vita.
Altrettanto spesso queste persone arrivano con un carico in più da sopportare: non sono nemmeno capace di prendere questa crisi come si deve!
Così, al dolore per il vissuto personale, si aggiunge la colpa di non essere abbastanza veloci nel trasformare il dolore in forza, la sofferenza in un’esperienza con cui ci si è già pacificati.

La crisi è perciò un momento in cui ci sentiamo presi dentro un loop dal quale ci sembra impossibile uscire, da cui vorremmo fuggire il più velocemente possibile, ma temiamo che ogni scelta porti con sé implicazioni inaccettabili, allora meglio stare immobili.
Ma si può davvero stare immobili se il tempo immobile non lo è?

Tutto questo si accompagna a emozioni che, talvolta come ondate di mareggiata, talvolta come sotterranei fiumi carsici, entrano nelle nostre giornate e ne lasciano il segno. Il dolore, la paura, la speranza, la delusione; la sensazione che non ci sia niente da fare e l’entusiasmo, di solito effimero, che le fa da contraltare…

E allora ci chiediamo: ma che senso ha?
Sono convinto che parte del lavoro della psicoterapia sia proprio quello di rispondere a questa domanda: dare significato al dolore che viviamo, perché da lì, posizionando quel dolore dentro la nostra vita e riconoscendone il ruolo, possiamo ricostruire la nostra storia, passata e quindi futura.

E sono anche convinto che altrettanto importante sia darci il tempo di stare dentro quella crisi e quelle emozioni, dentro anche al desiderio di scappare da quella crisi, perché sono le nostre emozioni e in quanto tali ci meritiamo di rispettarle.
Sono convinto che, se ci sentiamo in crisi e non viviamo questa crisi come una veloce nuvola di passaggio, allora vuol dire che quella crisi è importante nella nostra vita e merita che ce ne prendiamo cura, prima di vederla come qualcosa da ringraziare per passare oltre.

Alessandro Busi
a Mestrino, Padova e su Skype

Le precedenti parole riscoperte sono: attesa, quasi, vulnerabilità, come se, relazione, virtuale, anche, compromesso e concretezza.

Fare la psicoterapia nella fase 2

18 Maggio 202016 Maggio 2020

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Il tempo è una cosa strana: c’è e non c’è, si fa sentire ma proviamo a ignorarlo.
Sarà per questo, per dare corpo a qualcosa che corpo non ce l’ha, che tendiamo a suddividere quel flusso continuo?
Perché con il tempo raccontiamo come eravamo, come siamo e come saremo, trovando differenze e somiglianze, quindi abbiamo bisogno di qualcosa che faccia da unità di misura dei nostri cambiamenti – giornate, anni, età, fasi della vita, epoche storiche…

Anche questa pandemia la stiamo raccontando per fasi.
Ci sono state state la fase del pericolo lontano, poi quella della sottovalutazione, poi quella dell’emergenza, poi quella del lockdown, la cosiddetta fase 1, e ora siamo sempre di più dentro la fase 2, che potremmo chiamare fase della discrezionalità e della costruzione del futuro.
Nella fase 1 eravamo in una situazione di attesa e la risposta a molte domande era “no”, oggi siamo in una fase potenzialmente lunga e in cambiamento, nella quale, alle domande, si risponde con “dipende”, “pensaci”, “valuta”.
Questo, dandoci molta più libertà, ci mette di fronte alle nostre scelte e ai nostri timori, che non possono più stare nascosti nelle mura del divieto; ma diventano responsabilità personale e collettiva.
Ma d’altro canto, c’è altro modo per costruire un futuro a lungo termine?

Anche nella psicoterapia emergono nuove domande – Cosa desidero? Di cosa ho paura? Cosa mi sento di fare? Cosa penseranno gli altri di me? Cosa dovrei fare? – che riguardano sì la vita da costruire dentro i nuovi vincoli, ma anche le nostre paure più personali e di vecchia data: la paura di sbagliare, la paura del giudizio, la paura di non essere all’altezza…
Perciò ansia, desiderio di rinchiudersi, desiderio di sottovalutare, di fingere che tutta la situazione non sia vera; ma anche la possibilità di chiederci: cosa vorrei tenere di questo periodo nel mio futuro? Cosa dicono di me queste nuove paure? Come posso fare?
Magari scopriamo che questa situazione sta facendo emergere vissuti che già ci appartenevano e che ora non possiamo più sopire; ma potremmo scoprire anche che la nuova scansione delle giornate non la vogliamo buttare, oppure che le relazioni hanno un valore diverso rispetto a quello che avevamo dato loro fino a due mesi fa. E quindi di nuovo, come possiamo fare per tenerci strette queste nuove consapevolezze e renderle concrete nel futuro?

Come possiamo fare? è la domanda che mi sono posto anche io quando ho deciso che avrei gradualmente ripreso a fare i colloqui anche negli studi di Mestrino e Padova e mi sono risposto due cose:
– primo, che rimane la possibilità, per chiunque lo desideri, di effettuare la psicoterapia via Skype. Questa scelta nasce, da un lato dalle ragioni sanitarie per le quali qualcuno potrebbe preferire non venire in studio, dall’altro perché, in queste settimane più ancora di prima, mi sono reso conto che la psicoterapia via Skype non è una psicoterapia inferiore, ma una delle possibilità che oggi abbiamo di stare nella relazione clinica, possibilità che porta con sé vissuti, significati, emozioni che permettono un lavoro intenso e personale;
– secondo, che, proprio perché il lavoro di psicoterapia è personale, se per qualcuno la terapia online è percorribile, per altri non lo è, quindi, seguendo le indicazioni dell’Ordine degli psicologi del Veneto, ho ritenuto fosse importante riprendere le attività anche di persona nei modi più sicuri possibile:

  • poltrone a distanza di almeno 2 metri;
  • obbligo di indossare la mascherina;
  • gel igienizzante in studio da usare all’arrivo e prima di uscire;
  • pulizia delle superfici e ricambio di aria fra un colloquio e l’altro.

Tutto questo per me significa novità, che nasce dal compromesso fra le vecchie abitudini e le nuove condizioni, perché, proprio come abbiamo sempre fatto con la vita, è così che possiamo ripartire dentro questa nuova fase: tenendo ciò che per noi conta, lasciando andare qualcosa che non ci piace, che non possiamo continuare oppure che non sentiamo più appartenerci, e costruendo nuove strade da percorrere.

Alessandro Busi
psicologo e psicoterapeuta a Padova, Mestrino e su Skype

La riscoperta delle parole #5: relazione

22 aprile 202022 aprile 20204 commenti

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particolare della copertina di “Possiamo salvare il mondo, prima di cena” di Johnatan Safran Foer

La parola di oggi la riscopriamo* grazie all’iniziativa #NoiRestiamoInContatto della Scuola di Psicoterapia Costruttivista Icp di Padova: una serie di video di vari professionisti sanitari – psicologi e non – che esplorano il periodo che stiamo vivendo da punti di vista diversi.

Il contributo che ho provato a dare ruota attorno alle storie che raccontiamo di noi e degli altri, agli eroi che volevamo essere e a quelli che potremmo essere, partendo dal presupposto che in questo periodo stiamo riscoprendo una parola più di tutte: relazione.

Di seguito trovate il video e poi il testo che mi ha fatto – più o meno – da traccia.

Buongiorno a tutti, sono Alessandro Busi e sono uno psicologo e psicoterapeuta e, di fianco all’attività clinica, mi occupo anche di scrittura, di narrazioni.

Per questo tendo a ragionare per parole, quindi, quando mi è stato proposto di partecipare all’iniziativa “Noi restiamo in contatto”, mi sono chiesto quale parola stesse segnando più di altre questo periodo, e mi sono risposto: relazione.

Non mi riferisco solo al contraltare dell’isolamento, ma ne farei un discorso più ampio.

Partiamo da una domanda: come è successo che abbiamo imparato a considerare l’autonomia e la singolarità come contrapposte alle relazioni, come se le due cose si escludessero a vicenda?

Guardiamo alla nostra storia, l’idea di eroe solitario ci accompagna da Ulisse contro Polifemo, Il vecchio di Hemingway che affronta il marlin, la self made woman Miranda di Sex and the City, il rapper Tupac Shakur che intitolò il suo terzo disco Me against the world. Ma, anche ammesso che siano eroi solitari, la domanda di prima rimane: questo essere eroi solitari li rende estranei alle relazioni?

Tempo fa leggevo un libro di Jonathan Safran Foer, Possiamo salvare il mondo, prima di cena, che quasi all’inizio parla del Libro dei finali secondo il quale ogni respiro che facciamo conterrebbe una piccola parte di tutti i respiri della storia della mondo: Giulio Cesare, Napoleone, i mammut, la nostra maestra dell’asilo… tutti, attuali e passati. Foer poi dice: “A ogni ispirazione assorbivo la storia della vita e della morte sulla terra. Questo pensiero mi offriva una veduta aerea della storia: un’ampia rete fatta di un unico filo”.

Ecco, questa immagine della rete fatta da un unico filo mi è spesso tornata in mente in questo periodo perché rende bene la responsabilità del nostro ruolo individuale dentro un tessuto di relazioni; ci dice stare in relazione non è opposto a essere individui, ma anzi, proprio perché esistiamo come singoli, singoli nodi della rete, siamo interconnessi con gli altri.

Credo che l’esperienza che stiamo facendo di questo virus ci stia inchiodando proprio alla nostra condizione di esseri viventi in relazione – tutte: ristrette, online, cliniche, lontane, vicine, immaginate, solitarie, fra persone, economiche, fra età, fra specie…:

  • quando pensiamo “potrei essere venuto in contatto con il virus?” e allora scopriamo la miriade di persone con le quali siamo collegati in pochi passaggi;
  • quando sperimentiamo l’utilità e la fatica dell’isolamento sociale, che ha ricadute così ampie che a volte facciamo fatica perfino a convincerci che sia vero;
  • Quando ci ricordiamo che siamo ammalabili, quindi che potremmo noi stessi avere bisogno delle cure di qualcuno.

Bene, ma cosa possiamo farcene di queste nuove consapevolezze? Io immagino almeno tre strade, tutte e tre umanamente molto comprensibili:

  • Possiamo reagire con rabbia, obbligarci a tornare a vivere con le stesse convinzioni individualista di sempre, che però ora sono accompagnate dalla sensazione di fragilità, quindi, più ci aggrappiamo, più le sentiamo sgretolarsi, quindi più abbiamo paura che possano non reggere;
  • Possiamo rassegnarci, sentirci inermi, in balia del destino, stavolta la paura sarà diversa, più vicina al terrore, il terrore di chi sente che basta un colpo d’aria per cambiare tutto;
  • Possiamo concepire che abbiamo paura, ansia, panico e terrore; possiamo concepire che ci sono alcune cose che di questa quarantena ci piacciono, e che questo, magari, ci fa sentire in colpa; possiamo concepire che siamo arrabbiati perché sentiamo che ci toccherà cambiare il nostro modo di vivere, rimodulare le speranze su cui avevamo puntato. Possiamo dare spazio alla portata emotiva di questa delusione e poi, se ce la sentiremo, quando ce la sentiremo, potremo chiederci:
    Bene, cosa possiamo fare?
    Chi vorrei e chi mi sento e chi ho paura di essere con gli altri?
    Chi mi piacerebbe e chi ho paura che gli altri siano con me?
    E così via, provando insomma a chiederci: in quali altri modi possiamo stare dentro quella rete a filo unico?

Io non so la risposta a queste domande, e credo anzi che in questo periodo circolino fin troppe risposte e ricette su come dovremmo vivere questo tempo difficile. Quello di cui sono convinto, invece, è che questo virus stia precipitato dentro le biografie di tutti noi e che quindi spetti a ognuno di noi porci queste domande e assieme dare spazio a quello che sentiamo, così da permetterci di costruire, da soli e quindi assieme, delle nuove storie, dei nuovi miti e dei nuovi eroi che vorremmo e essere.
Non è semplice, ma può valerne la pena, perché, di fronte a un cambiamento così grande, quello che siamo chiamati a fare è proprio far ripartire le storie: da qui, che tipo di eroi possiamo essere.

Alessandro Busi

*Le precedenti parole de La riscoperta delle parole sono: attesa, quasi, vulnerabilità e come se.

La riscoperta delle parole #4: Come se (di Chiara Centomo)

15 aprile 202015 aprile 20204 commenti

Proseguiamo con La riscoperta delle parole** e anche con gli ospiti. Oggi la parola, o meglio, le parole ce le propone la collega psicologa e psicoterapeuta Chiara Centomo*.
Con lei esploreremo il linguaggio, il ruolo dei modi di parlare nella nostra vita e in particolare, vedremo l’importanza di due parole minuscole ma così grandi: come se.

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“La condizione umana” di R. Magritte (1935)

Sin da bambini ci è stato insegnato che esistono due tipi fondamentali di linguaggio, uno letterale e uno metaforico, e che entrambi possono esprimere lo stesso contenuto: Romeo può dichiararsi a Giulietta sia affermando di essere innamorato di lei, sia che le piace da impazzire. La differenza starebbe nel fatto che la modalità letterale (prerogativa della scienza, di un parlare esatto) permette di essere precisi e oggettivi, mentre la metafora sarebbe materia prima di artisti, poeti e sognatori.

Se esaminiamo più a fondo il nostro linguaggio, tuttavia, scopriamo che il parlare quotidiano è zeppo di espressioni e immagini metaforiche utilizzate per consuetudine come se fossero letterali. Pensiamo ad esempio al tempo che si afferra, si usa, si spreca o è lungo, pesante, lento. Le idee maturano, l’amore si conquista, certi pensieri sono difficili da sradicare, le persone possono essere elastiche o rigide e quando sono felici si sentono al settimo cielo, mentre se sono tristi hanno l’umore sotto terra.

È molto probabile che queste espressioni, insieme alle centinaia individuate da Lakoff e Johnson nel loro bellissimo libro “Metaphors we live by”1, non vengano immediatamente ricondotte al “come se” che implicitamente contengono (il tempo come se fosse un oggetto, l’innamoramento come se fosse un assedio, le persone come se fossero dei materiali con certe proprietà fisiche, ecc.). Esse, anzi, appaiono come modi appropriati e veri – letterali, appunto – di comunicare.

Si dice spesso che il modo in cui parliamo contribuisce attivamente a costruire la realtà che viviamo. Può sembrare un’affermazione astratta, fino a quando non consideriamo le metafore. Per esempio, quando pensiamo o parliamo del tempo come se fosse denaro (“in questo rapporto ho investito gli anni più belli della mia vita”, “mi ha rubato minuti preziosi”, “un’intera giornata è andata in fumo“, ecc.) tendiamo a strutturalo, percepirlo e viverlo esattamente in questi termini, ovvero come qualcosa che può essere speso, investito più o meno saggiamente, dissipato, sottratto.

L’analogia viene resa letterale nella nostra esperienza, tanto che in alcune situazioni anche non direttamente legate a una produttività economica ci sentiamo realmente derubati del nostro tempo e ne pretendiamo il risarcimento, o veniamo assaliti dalla frustrazione e dal rimpianto quando abbiamo la sensazione di averlo sprecato.

Utilizzando un’altra metafora potremmo mettere in luce sfumature diverse del modo in cui è possibile vivere il tempo? Decisamente sì. Pensiamo ad esempio a come ci sentiamo quando ci immergiamo in alcuni tipi di meditazione2, dove spesso si invita a fare esperienza del tempo come qualcosa che scorre: come se fosse una corrente che non si può fermare o gestire a proprio piacimento, ma da cui lasciarsi trasportare quietamente imparando, al limite, a governare le proprie vele nel momento presente.

I “come se” che scegliamo per parlare non solo del tempo ma di ciò che più ci sta a cuore diventano parte della nostra esperienza: scegliamoli con cura, perché davvero come dicono Lakoff e Johnosn noi viviamo attraverso le metafore.

Come parliamo, ad esempio, dell’amore? Come se fosse una guerra (“l’ho conquistata“), un oggetto personale (“è mio“), un viaggio (“siamo a un bivio“), un lavoro (“ci vuole impegno“) o magari un sacrificio (lo amo da morire“)?
Quali sono le implicazioni di ognuna di queste immagini? Quali possibilità aprono, e cosa invece non ci permettono di esplorare dell’esperienza dell’amore?
Cosa cambierebbe se, parlando di un problema di coppia, provassimo a utilizzare un altro “come se”?

1 Il libro, pubblicato nel 1980, è disponibile in italiano con il titolo “Metafora e vita quotidiana”.

2 Ad esempio la Mindfulness. pratica di consapevolezza sviluppata a partire dalla filosofia buddista (scevra dalla sua componente religiosa).

*Chiara Centomo, psicologa e psicoterapeuta. Accompagno adulti, adolescenti e coppie in percorsi di psicoterapia, di consulenza e di miglioramento personale; mi occupo inoltre di formazione, orientamento e divulgazione scientifica. I miei interessi di ricerca sono principalmente il rapporto corpo-mente e il linguaggio.
Contatti: chiaracentomo@gmail.com
Sito: http://www.chiaracentomo.com
Pagina Facebook: Chiara Centomo Psicologa Psicoterapeuta

**Le precedenti parole sono state: attesa, quasi, vulnerabilità.

 

Come possiamo essere il nostro personale museo del fallimento?

7 giugno 201918 marzo 2020

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Illustrazione presa da qui

Quante volte leggiamo o sentiamo storie di successo?
Proprio pochi mesi fa mi è capitato di leggere l’ultimo libro dello scrittore americano Dave Eggers, Il monaco di Mokha: la storia di un giovane americano e yemenita che, da portiere di un condominio di lusso diventa, non senza qualche difficoltà, il creatore di una compagnia di caffè proveniente proprio dal suo paese d’origine.
Certo, è stato bello leggere la sua storia di successo, ma mi sono chiesto: perché tendiamo a concentrarci sulle cose che vanno bene? Non rischiamo di dimenticarci dell’importanza dei fallimenti?
Da riflessioni simili sembra sia partito lo psicologo svedese Samuel West, quando ideònel 2017 un museo con sede a Helsinborg*, noto come il Museo del Fallimento: un museo nel quale sono

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Logo del Museo del Fallimento

raccolte le più fallimentari innovazioni tecnologiche della storia (dalla Coca Cola al gusto di caffè ai Google glass; dalle Bic per donna all’Apple Message Pad Newton, un antenato dell’iPhone, che uscì in un 1993 che non seppe comprenderlo).

“Ero stufo di sentire e leggere sempre le solite storie di successo, sono tutte così simili”, scrive West nel sito del museo, “È nei fallimenti che si trovano le storie più interessanti, quelle dalle quali possiamo imparare qualcosa”.
Non è forse vero? Non è quando le cose vanno diversamente dal previsto che ci troviamo costretti a reinventarci?

Ma allora, se sappiamo così bene la teoria, come mai viviamo nella ricerca che tutto resti sempre sereno, tranquillo?

Credo che molto riguardi le aspettative che abbiamo, in primis: la speranza di fare la cosa giusta. Se farò la cosa giusta, ci diciamo, tutto andrà bene. Eppure. Eppure succede che le cose non vadano comunque come ci aspettavamo e così spesso ci intestardiamo a battere la testa contro lo stesso muro, nello stesso identico punto, solo per dimostrarci che non ci eravamo sbagliati (Prima o poi, mi darà ragione questo maledetto muro!).
D’altro canto, a chi piace sbagliarsi?
A nessuno, certo, ma: se non fossimo caduti, una miriade di volte, se non avessimo pianto, se non fossimo stati consolati, se non ci fossimo sbucciati ginocchia, gomiti, palmi delle mani, avremmo mai imparato a camminare?
Allora, possiamo provare a guardare al fallimento da un’altra prospettiva e, oltre al dispiacere, alla tristezza, alla rabbia e a tutte le legittime emozioni che una delusione porta con sé, possiamo chiederci: cosa me ne faccio di questo fallimento? E, soprattutto quando riguarda qualcosa di importante nelle nostre vite, quando sentiamo di aver fallito nei nostri progetti di vita, cosa posso fare?
Spesso, in psicoterapia, succede di incontrare persone che sentono di essere in quella fase in cui guardano a ciò che hanno vissuto e si dicono: perché mai ho fatto queste scelte? E poi: da qui, dove vado?
Quando ci sentiamo così, il primo desiderio sarebbe quello di cancellare tutto quello che è stato, scappare via, da noi stessi in primis. Ma possiamo cancellare il nostro passato? Temo proprio di no, però possiamo provare a riscriverlo, per vedere che storia racconta. Possiamo metterci le mani, comprenderne gli snodi, guardarli da prospettive diverse, talvolta riderne, talvolta soffrirne, capire chi siamo stati noi, chi siamo stati noi assieme agli altri. Possiamo guardare i nostri fallimenti e dare loro una targhetta che ne spieghi la storia, illuminarli a modo e poi vederli come parte del tutto che siamo diventati. Da lì possiamo poi costruire nuove stanze e nuovi percorsi, che ci apriranno nuove strade e nuove esperienze, nuove gioie a cui ci affezioneremo e nuovi fallimenti con cui dovremo fare i conti – oppure nuove gioie con cui dovremo fare i conti e nuovi fallimenti a cui ci affezioneremo – in quello che sarà il nostro personale museo del fallimento.

Alessandro Busi
Mestrino, Padova e su Skype

 

* Oltre a delle mostre temporanee in giro per il mondo, alte sedi sono in previsione a Shanghai e Monaco.

La tristezza a Natale: “tornerò mai a essere felice?”

10 dicembre 201818 marzo 2020

Per molti, il periodo delle feste è tanto desiderato quanto temuto, e porta con sé un senso di malinconia difficile da accettare. Spesso chi vive queste sensazioni, teme di essere il solo al mondo a non saper stare assieme agli altri. Ma è veramente così?
Oggi vi racconto una storia di tristezza di Natale, paura di non essere più se stesso, psicoterapia e cambiamento per scoprire un Natale nuovo e non solo.
Buona lettura.

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Illustrazione di Alessandro “Shout” Gottardo

Christian* ha trentasette anni, fa il lavoro per il quale ha studiato ed è sposato da tre anni.
Fin da bambino, c’è un periodo dell’anno che ama più degli altri, perfino delle vacanze estive: il periodo natalizio. Anche quando era adolescente, e gli amici si lamentavano dei pranzi infiniti con i parenti, lui sentiva che i giorni di dicembre gli facevano vibrare le vene di una strana emozione a cui non aveva mai saputo dare un nome.
Cos’era quell’emozione lì?
Di certo, si diceva, non era questione di regali, cene, maglioni rossi, panettoni, tombola, pattinaggio sul ghiaccio, cioccolata calda, torrone morbido, torrone duro, biglietti, babbi appesi alle finestre, abeti veri e finti, muschio vero e finto, messe seguite, messe saltate. O forse sì. Forse era proprio tutto questo assieme che amava, e quanto questo condensato di attività fosse per lui rassicurante.

Christian ama il Natale fin da bambino e ora passeggia con sua moglie sottobraccio in mezzo alla folla del centro storico. I sacchetti sugli stinchi sono all’ordine del minuto, assieme al profumo di vin brulè e allo scampanellio del trenino che porta genitori e bambini da una piazza all’altra. E poi il vociare.
Christian pensa che sia quel ribollire di parole che lo infastidisce.
«Cos’hai?», gli chiede sua moglie, quando lo vede guidare tutto serio.
«Sono solo un po’ stanco».
Ma nei giorni dopo il fastidio si allarga. Alla cena aziendale sorride con fatica e, quando ritorna a casa, allunga il tragitto per passare un po’ più di tempo da solo.
“Cosa mi sta succedendo?”
Iniziano le notti per buona parte insonni, il fastidio a sentire sua moglie accanto e il desiderio di spolverarsi via dal cervello quei pensieri. Ma è quando si ritrova in doccia a piangere che si convince che qualcosa non va: non ne capisce il motivo, ma non sa resistere. Vorrebbe che le persone vicine a lui sparissero, che la sua vita così prevedibile svanisse, che una mattina le cose si svegliassero nuove. Oppure vorrebbe solo che tutto tornasse come un tempo?
Una sera, quando sua moglie gli dà un bacio, lui la abbraccia come non aveva mai fatto e le parla, senza coraggio di guardarla negli occhi.
Ora lo sa anche lei, e Christian può smettere di tenere il segreto.
Nelle ultime giornate al lavoro prima delle vacanze odia perfino la porta scorrevole, mentre le sere a casa sono mosce come un peluche senza ovatta. È così che si sente Christian, un oggetto svuotato, una persona che non sa più riconoscere se stessa. E proprio a Natale! Quando tutti sono felici, quando lui stesso, per una vita, è stato felice, ora sa solo dare preoccupazioni e tristezza a chi gli sta accanto.
Non sa cosa sia, ma per forza, si dice, per forza deve essere lui che ha qualcosa di sbagliato, di storto. Vorrebbe nascondere, lo scriverebbe come desiderio anche a Babbo Natale, ma la mancanza di senso che sente è troppo grande per essere ignorata.
Allora prova a dirsi che deve solo aspettare, che passato il capodanno le cose cambieranno, ma gli sembra così lontano. E poi, seriamente: le cose cambieranno?

Christian riesce ad arrancare oltre le feste, ma quel sentire che la vita gli sta scivolando via dalle dita non smette di essere presente.
Per questo un giorno si rivolge a uno psicologo.
Per questo, con sua grande sorpresa, un tardo pomeriggio si ritrova seduto su una poltrona a parlare di sé e di quello che sente. All’inizio prova a convincere lo psicologo che non sa perché è lì e che la sua vita è perfetta; spera che sia lo psicologo a dirgli che va tutto bene, ma presto le parole escono dalle labbra e la sua vita prende forma nei suoi racconti in quella stanza. A volte con sofferenza, altre con nostalgia, altre ancora anche ridendo, in terapia Christian riprende in mano il senso delle proprie scelte e del presente che vive. Rivede cose che non avrebbe voluto e altre di cui è soddisfatto ma a cui, nel veloce procedere dei giorni, non aveva dato peso.
Già questo gli permette di vedersi nuovo, ma la psicoterapia non finisce lì, perché Christian ha una domanda, per lui così densa di significati, che gli frulla in testa: tornerò mai a essere felice a Natale?
È lì, in quei colloqui, che Christian decide che non tornerà, perché è il passato stesso a non poter tornare, ma dà un nuovo senso alle proprie giornate e così al Natale stesso, che forse non fa più rima per forza con felicità, ma diventa un momento nuovo nella vita che ora Christian sente di saper vivere.

Alessandro Busi
Mestrino, Padova e su Skype

*Nomi ed eventi sono frutto della fantasia dell’autore. Ogni riferimento a fatti realmente accaduti è puramente casuale.

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Dipendenza da internet: oltre la rassegnazione

16 ottobre 201818 marzo 20201 commento

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Illustrazione “Youtube” di Giulio Castagnaro

Un tema sempre più presente oggigiorno è la dipendenza da internet.
Di solito, per parlarne, si cerca la linea che separa l’uso normale dall’uso patologico delle nuove tecnologie: definire il giusto tempo da spendere online. Questo nasce da un’idea: il tempo giusto è quello della “vita reale”, mentre quello speso online è “tempo perso/speso male”.
Non mi interessa mettere in discussione questo modo di vedere, ma mi chiedo: è utile per comprendere ciò che vive una persona online? È utile per comprendere il vissuto di una persona che potremmo definire dipendente da internet?
Quello che vi propongo è di provare a cambiare sguardo e concentrarci sulle relazioni e sulla comprensione delle storie personali. Partiamo così: come mai una persona preferisce passare sempre più tempo online?

Immaginiamo una storia*.

Andrea è un ragazzo di 23 anni, alto, moro, timido, direbbe lui di sé. Nella sua giovane vita alterna un rapporto di odio e amore con le nuove tecnologie. Se in certi periodi dell’infanzia è quello che incita gli amici a uscire di casa e mollare i videogiochi, in adolescenza si concede lunghe serate davanti al pc: soprattutto sui social e in chat.
Quello che più gli piace è riuscire a conoscere persone. Per quanto non lo racconti a nessuno, in chat si sente bene: sente di potersi raccontare al meglio, di poter dire la propria idea senza vergognarsi, di poter mostrare interesse anche per le ragazze, senza essere impacciato e goffo come nella vita di tutti i giorni.
Dopo gli anni delle scuole superiori, Andrea inizia a lavorare come magazziniere in un negozio di grande distribuzione, mentre gli amici se ne vanno all’università e si sparpagliano in tante città diverse. Continuano a vedersi, certo, ma le cose cambiano. Spesso pensa che anche lui avrebbe potuto continuare gli studi, ma quando ci pensa sente un brivido che gli sale lungo la schiena e gli dice che non sarebbe riuscito, che avrebbe fatto la figura del cretino, che è meglio così. E in quel così, Andrea scopre la propria solitudine, che ormai sente sempre più ineluttabile: fatica a parlare con gli altri (genitori, compagni di calcetto, amici…) e gli sembra l’unica sua scelta sia quella di rassegnarsi. Dico, gli sembra, perché c’è ancora un posto nel quale Andrea si sente compreso, le chat, i social network, i commenti; più in generale, la sua vita online. Lì nessuno gli parla sopra e a chi lo offende sa rispondere per le rime. Nessuno lo guarda con quello sguardo pietoso che conosce fin troppo bene. Lì nessuno se ne va, nessuno rimane, e, quando le cose non vanno come vuole lui, può chiudere la pagina e mettersi in gioco da qualche altra parte.
Sono i suoi genitori a non capire! Sono loro a urlargli che esagera, che dovrebbe uscire, trovarsi una fidanzata: ma cosa ne sanno loro?! E come se non bastasse, ci si mettono anche gli amici, che lo invitano a conoscere i nuovi compagni universitari e quando lui rimanda e rimanda e rimanda, si offendono pure. Solo nelle chat le persone lo capiscono. Quando lui racconta quello che prova – quello che, quando vorrebbe confessarlo agli amici, sente un grumo che gli ferma le parole in gola – i suoi amici telematici, gli rispondono con parole ed emoticon che lo fanno sentire meno solo e tanto gli basta per preferire quel tipo di relazioni a quelle di tutti i giorni.
Non lo fa apposta. A chi gli chiede, non sa rispondere, e quasi non se ne accorge che, lavoro a parte, il resto del tempo lo passa al computer, o al telefono, ma soprattutto che nel resto del tempo è scontroso e ha quasi paura che gli altri lo cerchino.
Di nuovo, sono i genitori ad accorgersi che qualcosa non va e a convincerlo, non senza difficoltà (“Mica sto facendo del male a nessuno!”, dice lui durante un litigio, “Ma cosa te ne fai della tua vita?”, gli ribatte sua madre) a iniziare una psicoterapia. All’inizio, lui è molto contrariato e si impegna a raccontare allo psicologo che va tutto bene, tutto benissimo, tutto troppo, troppo bene. Troppo bene, anche per lui, che dopo aver tastato quella strana relazione come si fa con la punta dei piedi prima di tuffarsi, e aver deciso che avrebbe potuto fidarsi, inizia a portare le sue paure, il suoi desideri, i timori che lo immobilizzano quando è con gli altri, il sogno di avere una vita come quelle degli altri, che gli sembrano così irraggiungibili. Assieme al suo psicoterapeuta stanno in questo suo dolore e provano a comprenderlo. Provano anche a comprendere chi siano e come siano queste vite così perfette da cui lui si immagina circondato, ma più di tutto, riscoprono la paura, che smette di essere un raggio congelante come nei film dei supereroi. Andrea fraternizza con i suoi brividi e, piano, piano, si concede di avere la paura come compagna di viaggio, che forse non vorrebbe, ma che non lo blocca più. Andrea scopre quindi che, come tutti, non è perfetto, ha delle goffaggini, ma scopre anche che questi aspetti di sé non dispiacciono agli altri, e nemmeno più a se stesso. Andrea, come tutti oggi, passa ancora tanto tempo online, ma ogni volta che decide di stare a casa invece di fare altro, o che decide di chiudere il pc e uscire, sa che ha tanti modi di stare assieme agli altri, o di stare da solo, e che la sua vita ha nuove strade da percorrere oltre alla rassegnazione.

Alessandro Busi
Mestrino, Padova e su Skype

*Ogni fatto raccontato e personaggio inserito è frutto dell’immaginazione dell’autore e non c’è nessun riferimento alla realtà.

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