
Illustrazione presa da qui
Quante volte leggiamo o sentiamo storie di successo?
Proprio pochi mesi fa mi è capitato di leggere l’ultimo libro dello scrittore americano Dave Eggers, Il monaco di Mokha: la storia di un giovane americano e yemenita che, da portiere di un condominio di lusso diventa, non senza qualche difficoltà, il creatore di una compagnia di caffè proveniente proprio dal suo paese d’origine.
Certo, è stato bello leggere la sua storia di successo, ma mi sono chiesto: perché tendiamo a concentrarci sulle cose che vanno bene? Non rischiamo di dimenticarci dell’importanza dei fallimenti?
Da riflessioni simili sembra sia partito lo psicologo svedese Samuel West, quando ideònel 2017 un museo con sede a Helsinborg*, noto come il Museo del Fallimento: un museo nel quale sono

Logo del Museo del Fallimento
raccolte le più fallimentari innovazioni tecnologiche della storia (dalla Coca Cola al gusto di caffè ai Google glass; dalle Bic per donna all’Apple Message Pad Newton, un antenato dell’iPhone, che uscì in un 1993 che non seppe comprenderlo).
“Ero stufo di sentire e leggere sempre le solite storie di successo, sono tutte così simili”, scrive West nel sito del museo, “È nei fallimenti che si trovano le storie più interessanti, quelle dalle quali possiamo imparare qualcosa”.
Non è forse vero? Non è quando le cose vanno diversamente dal previsto che ci troviamo costretti a reinventarci?
Ma allora, se sappiamo così bene la teoria, come mai viviamo nella ricerca che tutto resti sempre sereno, tranquillo?
Credo che molto riguardi le aspettative che abbiamo, in primis: la speranza di fare la cosa giusta. Se farò la cosa giusta, ci diciamo, tutto andrà bene. Eppure. Eppure succede che le cose non vadano comunque come ci aspettavamo e così spesso ci intestardiamo a battere la testa contro lo stesso muro, nello stesso identico punto, solo per dimostrarci che non ci eravamo sbagliati (Prima o poi, mi darà ragione questo maledetto muro!).
D’altro canto, a chi piace sbagliarsi?
A nessuno, certo, ma: se non fossimo caduti, una miriade di volte, se non avessimo pianto, se non fossimo stati consolati, se non ci fossimo sbucciati ginocchia, gomiti, palmi delle mani, avremmo mai imparato a camminare?
Allora, possiamo provare a guardare al fallimento da un’altra prospettiva e, oltre al dispiacere, alla tristezza, alla rabbia e a tutte le legittime emozioni che una delusione porta con sé, possiamo chiederci: cosa me ne faccio di questo fallimento? E, soprattutto quando riguarda qualcosa di importante nelle nostre vite, quando sentiamo di aver fallito nei nostri progetti di vita, cosa posso fare?
Spesso, in psicoterapia, succede di incontrare persone che sentono di essere in quella fase in cui guardano a ciò che hanno vissuto e si dicono: perché mai ho fatto queste scelte? E poi: da qui, dove vado?
Quando ci sentiamo così, il primo desiderio sarebbe quello di cancellare tutto quello che è stato, scappare via, da noi stessi in primis. Ma possiamo cancellare il nostro passato? Temo proprio di no, però possiamo provare a riscriverlo, per vedere che storia racconta. Possiamo metterci le mani, comprenderne gli snodi, guardarli da prospettive diverse, talvolta riderne, talvolta soffrirne, capire chi siamo stati noi, chi siamo stati noi assieme agli altri. Possiamo guardare i nostri fallimenti e dare loro una targhetta che ne spieghi la storia, illuminarli a modo e poi vederli come parte del tutto che siamo diventati. Da lì possiamo poi costruire nuove stanze e nuovi percorsi, che ci apriranno nuove strade e nuove esperienze, nuove gioie a cui ci affezioneremo e nuovi fallimenti con cui dovremo fare i conti – oppure nuove gioie con cui dovremo fare i conti e nuovi fallimenti a cui ci affezioneremo – in quello che sarà il nostro personale museo del fallimento.
Alessandro Busi
Mestrino, Padova e su Skype
* Oltre a delle mostre temporanee in giro per il mondo, alte sedi sono in previsione a Shanghai e Monaco.