In questi mesi mi è successo di ascoltare alcuni podcast dello storico Alessandro Barbero. Il modo che usa per avvicinarci agli eventi storici è quello di focalizzarsi sul senso che aveva per le persone dell’epoca comportarsi in quello specifico modo. È una precisazione che fa spesso: non pretendete di guardare con gli occhi di oggi gli eventi e le persone del passato, se li si volete capire. Perché Cavour spinse tanto per l’Unità d’Italia? Perché i soldati italiani accettarono di combattere a Caporetto? Perché scoppiò la rivoluzione francese? Se vogliamo capirli dobbiamo provare a metterci nei desideri di Cavour, nelle aspettative dei soldati sul fronte della Grande Guerra, nella visione del mondo e della società che c’era in Francia alla fine del ‘700.
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Una sensazione che molte persone raccontano in psicoterapia è questa: la paura di aver sprecato il proprio tempo, di non aver scelto quello che volevano ma, talvolta quello che dovevano, talvolta quello che la vita faceva capitare loro sotto i piedi. Questa sensazione porta con sé un rosario di altre sensazioni che vanno dall’incolparsi, al sentire il peso del tempo che passa, al pensare di aver sbagliato, o peggio ancora di avere qualcosa di intrinsecamente sbagliato: perché tutti gli altri sono capaci di vivere e io no? Questa visione apre purtroppo a uno scenario difficile da scardinare, perché è lo scenario nel quale sentiamo di non avere la possibilità di incidere in prima persona in quello che sembra essere un destino già scritto.
Un’altra sensazione ricorrente in terapia è però anche lo stupore; lo stupore di prendersi del tempo per chiedersi: ma io, questa vita, come l’ho costruita? Lo stupore, a volte piacevole e a volte doloroso, di guardare al proprio tempo, alle emozioni provate, ai bivi di fronte ai quali ci si è trovati, e ridare senso alle scelte fatte, che magari non erano quelle più desiderate, ma di certo erano quelle più sensate in quel momento. In questo modo, infatti, possiamo scoprire che non abbiamo vissuto la vita dei sogni, ma quella che, dentro tutte le asperità che ci sono toccate, ci siamo conquistati. Le occasioni sprecate potrebbero iniziare ad avere un senso, e così il tempo lasciato andare, le scelte che ci apparivano così sbagliate. Allo stesso modo possiamo capire anche quello che ci sentiamo di fare e di non fare oggi, quello che vogliamo e quello che ancora ci fa troppa paura; e da lì immaginare strade alternative e aprirci, se e come ce la sentiamo, a nuove possibilità. Perché, se per comprendere la peste del ‘300, come dice Barbero, dobbiamo entrare negli occhi di chi viveva all’epoca, come possiamo pretendere di capire la nostra vita senza dare valore alla nostra storia?
Immaginiamo una storia di coppia. Si sono incontrati cinque anni fa e qualcosa li ha reciprocamente attratti. Sono usciti assieme, si sono conosciuti, si sono piaciuti. L’uno era esattamente come l’altro lo desiderava; un impegno reciproco che cresceva man mano che si conoscevano. Nei loro termini, desideravano il bene l’uno dell’altra. Se un giornalista, uno di quelli che fanno le interviste in strada sotto San Valentino, avesse chiesto loro, qual è il segreto del vostro amore?, avrebbero risposto, senza pensarci troppo, che il loro segreto era esserci per l’altro, nel miglior modo possibile. Pronunciando quelle parole, a uno dei due sarebbe scesa una goccia di sudore, assieme a un pensiero: ma se per una volta non ci fossi, cosa succederebbe? Questo piccolo pensiero, questa dozzina di parole, avrebbe generato un vortice che avrebbe ruotato attorno a una domanda ancora più grande: se non fossi come si aspetta, cosa ne sarebbe di noi?
Questa è una domanda che spesso emerge nei percorsi di psicoterapia, non solo riferita ai partner, ma alle persone rilevanti della vita – familiari, amici, amanti, figli – perché, se da un lato è comprensibile e comune il desiderio di soddisfare i desideri di chi abbiamo accanto, dall’altro corriamo il rischio di convincerci che l’altra persona, se smettiamo di essere così soddisfacenti, non abbia altra ragione per stare con noi. Beh, facile, allora non bisogna soddisfare i desideri degli altri!, si potrebbe dire. Certo, anche questa è una possibilità, ma perché? Perché dovremmo privarci del piacere di far felice una persona a cui vogliamo bene? Per la paura poi di deludere le aspettative che potrebbe farsi? E poi ancora: se lo facciamo, avremo delle buone ragioni per cui lo facciamo, no? Vabbè, ma allora, cosa bisogna fare?!
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C’è una poesia della poetessa Alessandra Racca che recita così:
“Nico, mi fai una frangia cortissima?” “Neanche se mi paga.”
Come il mio parrucchiere vorrei mi trattasse la vita: forbici in mano e idee chiare su come farmi stare bene malgrado me.
Purtroppo (ma anche per fortuna), nelle relazioni, per quanto possa piacerci l’idea di sapere a priori cosa è giusto o sbagliato fare, o che qualcuno possa saperlo per noi, ci tocca fare come gli scienziati: provare, sbagliare, riprovare, essere soddisfatti, essere insoddisfatti, riprovare ancora, e via dicendo. In questo modo possiamo vedere che ci sono momenti in cui desideriamo accontentare chi abbiamo accanto e altri in cui proprio non ci va; possiamo incontrare la paura di legarci, della responsabilità, oppure la paura di essere soli; possiamo scoprire la paura di deludere, il terrore di essere abbandonati, per cui ci ritroviamo a fare cose che magari nemmeno ci piacciono, ma è quello che sentiamo di poter fare; possiamo scoprire, però anche, che, se ci diamo la possibilità di deluderci e di deludere, ci sono altre ragioni che ci tengono assieme a quella persona, che sta con noi, non tanto – non solo – per quello che facciamo per lei, ma proprio per chi siamo; possiamo scoprire che è arrivato il momento di chiudere, oppure di ripartire da una domanda diversa, che ci apra a nuove possibilità; una domanda come: Se ci deludessimo, chi altro potremmo essere assieme?
C’è questo libro molto famoso nel mondo della psicologia, che si intitola Uno psicologo nei lager e fu scritto da Viktor Frankl.
Viktor Frankl venne deportato con il numero 119.104. Era il 1942. Da Vienna avrebbe potuto andarsene un anno prima, avendo ricevuto il visto per l’espatrio, ma scelse di restare per continuare, in qualità di direttore del padiglione delle suicide dell’ospedale psichiatrico Am Steinhof, la resistenza al programma nazista di eliminazione dei pazienti psichiatrici. Nei tre anni da deportato, Frankl finì in 4 diversi campi di concentramento – Theresienstadt, Auschwitz, Kaufering III e Turkheim – e si ammalò di tifo. Sopravvisse. Quando concluse la sua prigionia, scoprì di essere rimasto sostanzialmente senza famiglia, ognuno dei cui membri era stato ucciso. In campi diversi da quelli in cui era stato lui furono uccisi la moglie con cui si era sposato un anno prima di essere deportato, il fratello e i genitori.
Che senso aveva continuare a vivere?
Questa è la domanda che percorre le pagine del suo Uno psicologo nei lager, un libro che, se nella prima parte esplora come si possa desiderare di sopravvivere perfino dentro una situazione disumana come un campo di concentramento, nella seconda va incontro alla condizione del sopravvissuto, di chi deve ricostruire le ragioni che lo tengono in vita.
Secondo Frankl quello che lo tenne in vita, quello che ci tiene in vita, non è la felicità, ma sentire che quello che facciamo ha senso. È lì che le contraddizioni che siamo possono avere spazio, che le nostre scelte, azioni, rinunce diventano comprensibili in quanto imbevute della nostra biografia, che si tinge a sua volta di un nuovo valore, un valore per cui sentiamo che merita di essere vissuta.
Quelle che ho scelto di riportare di seguito sono le ultime due pagine del libro, che credo riescano a condensare il pensiero dell’autore e di questo testo, scritto di getto, in nove giorni, a nemmeno un anno dalla liberazione.
Tutti lo sapevano, nel lager, e lo dicevamo tra noi: non esiste gioia sulla terra che possa risanare ciò che stiamo soffrendo. Per noi la felicità non contava più. Ciò che ci teneva in piedi e che poteva dare un significato alla nostra sofferenza, al nostro sacrificio, alla nostra morte, non era la felicità. Eppure, all’infelicità non eravamo preparati. La delusione che il destino aveva deciso per noi non pochi ex internati, nella nuova libertà, è un’esperienza che questi uomini hanno superato solo a fatica e dalla quale non li si può distaccare facilmente. […] In un modo o nell’altro viene il giorno in cui ogni ex internato, ripensando all’esperienza del lager, prova una strana sensazione. Egli stesso non comprende come abbia potuto superare tutto ciò che la vita del lager ha preteso da lui. E se vi fu nella sua vita un giorno – il giorno della liberazione – nel quale tutto gli apparve come un bel sogno, certamente arriva anche il giorno in cui tutto ciò che ha vissuto nel lager gli appare come un brutto sogno. Quest’esperienza dell’uomo tornato a casa sarà coronata dalla splendida sensazione che, dopo quanto ha sofferto, non deve temere nulla al mondo – tranne il suo Dio.
[V. Frankl, Uno psicologo nei lager, Edizioni Ares: Milano, pp. 151-152]
Particolare della copertina del calendario 2020 di Guido Scarabottolo
È dicembre inoltrato e ci stiamo quindi muovendo verso la fine del 2020. “Per fortuna!”, aggiungeranno molti. È comprensibile, perché – dico una banalità – il 2020 ha messo a soqquadro le nostre vite. Chi, a gennaio, avrebbe potuto immaginare quello che sarebbe successo da lì a pochi giorni? Se qualcuno ci avesse detto: non vi abbraccerete, non vi darete la mano, girerete sempre con indosso una mascherina, gli avremmo fatto i complimenti per la fantasia e gli avremmo consigliato di scriverci un bel libro di fantascienza, ma chi gli avrebbe creduto? E invece eccoci qui, a sfruttare più che possiamo quella che molti etologi sostengono essere la migliore qualità dell’essere umano: la capacità di cambiare le proprie abitudini, per adattarsi all’ambiente che lo circonda. Cambiare abitudini, però, dovrebbe essere un processo graduale, perché le abitudini, se le abbiamo costruite negli anni, vuol dire che per noi avevano un senso, quindi, modificarle implica modificare anche il nostro modo di vedere e stare al mondo. Con la gradualità è possibile (e sottolineo possibile) che ci percepiamo attori protagonisti di questo processo, per cui sentiamo che anche le nuove abitudini hanno senso; altrimenti, è più probabile che viviamo questi cambiamenti come una strozzatura della nostra libertà di scelta, che si assoggetta a un mondo esterno che non avevamo mai sentito così opprimente. Che sia questa la pandemic fatigue (fatica da pandemia) di cui tanto si parla? Non lo so. Di certo, non stiamo parlando di un’etichetta astratta, ma di cose molto concrete: pensieri, preoccupazioni, difficoltà a prevedere il futuro che abbiamo davanti; ansia, dolore, paura; modi di stare assieme, modi di stare in famiglia, in coppia, con gli amici; l’importanza del lavoro e degli hobby, le uscite del sabato, il nostro rapporto con la tecnologia, il nostro rapporto con i soldi… e potrei proseguire così a lungo da annoiarci.
Sono convinto che parte della difficoltà a stare dentro questo periodo – accanto al nostro esserci scoperti vulnerabili – nasca dal rapporto con la libertà e con le relazioni. Il cambiamento più grande dentro il quale ci troviamo, infatti, è proprio la necessità di considerare che non siamo liberi al cento per cento, ma ogni nostra scelta, azione, è frutto di compromesso. Ma prima della pandemia, non era già così? Io credo di sì, solo che, nel mondo per come eravamo abituati a conoscerlo prima di marzo 2020, tutto rientrava nella normalità delle cose. Quante volte, più o meno consapevolmente, ci siamo per esempio chiesti: “preferisco comportarmi in questo modo che desidero, avendo la sensazione di deludere chi mi vuole bene, oppure in quest’altro, deludendo il mio desiderio, ma sperando di fare contente le persone che amo?E chi mi sento di essere se scelgo una strada invece che l’altra?“ Ognuno di noi ha costruito la propria vita per esperimenti e aggiustamenti, per compromessi, e i compromessi possono essere tanto meno dolorosi, quanto più sentiamo che per noi hanno senso. Il che non significa che siamo sempre andati nella direzione che desideravamo, no, ma che, anche quando ci siamo rassegnati, siamo stati noi a rassegnarci e quella rassegnazione ci ha visti attori protagonisti. Non credo che fare ciò sia facile, anzi, e spesso la psicoterapia è anche questo spazio, lo spazio nel quale ricostruire il senso delle scelte fatte, delle emozioni vissute, sperate ed evitate, per sentire che la nostra vita ha un respiro ampio e per poterci chiedere: pur all’interno dei vincoli della mia vita, che direzione mi sento di prendere da qui?
Dicevamo che il 2020 sta volgendo al termine. Per molti la chiusura di un anno è un momento nel quale fare il punto. Fare il punto di un anno così, però, è difficile, quindi potrebbe essere forte la tentazione di chiudere gli occhi e sperare che il 2020 finisca e porti via con sé tutto. Purtroppo, e lo sappiamo tanto bene quanto lo speriamo, non andrà così. I nuovi vincoli che il mondo attorno ci pone li troveremo a gennaio e nei mesi a venire. Cambieranno, cambieremo, ma non scompariranno, quindi dovremo ancora farci i conti, proprio come abbiamo fatto fino a ora. Un’alternativa che abbiamo per poterci aprire a un 2021 nel quale sentirci un po’ più capaci di surfare sopra questo mare mosso, provando a non farci sommergere dal caos o a dare un senso al nostro eventuale sommergerci, potrebbe essere quella di riguardare al 2020 e chiederci: dentro a tutto questo, cosa ho fatto?E quando ce lo chiediamo, fare uno sforzo per andare a fondo. Così, per esempio: sì, facevo il pane, ma mentre facevo il pane, cosa facevo? Potremmo scoprire che, mentre facevamo il pane, ci stavamo coccolando, speravamo fosse un modo per prenderci cura delle persone a cui vogliamo bene, ci stavamo sforzando a costruire una routine nuova che ricostruisse una prevedibilità nelle giornate senza le uscite di casa, e chissà cos’altro. In questo modo non scomparirà l’impatto emotivo, anche doloroso, di questo periodo, ma sono convinto che, più aspetti ci sentiamo di esplorare in questo modo, più possiamo scoprire che anche questo 2020 lo abbiamo vissuto, non nel modo che speravamo a gennaio, ma comunque dando la nostra impronta, anche la nostra impronta. Quindi possiamo chiederci: che impronta ho dato a questo 2020?
Questo è un particolare della copertina di Febbre di Jonathan Bazzi. L’illustrazione è di Elisa Seitzinger.
Nelle ultime settimane ho letto il libro dello scrittore Jonathan Bazzi: Febbre. In Febbre l’autore racconta se stesso in relazione a un centro di gravità, la sua diagnosi di sieropositività, perché notizie come questa sembrano assorbire per intero la biografia di una persona. Nelle pagine come nella vita, però, ci sono tante storie che si intrecciano, che raccontano l’esistenza in modo più ampio di un solo evento, per quanto rilevante. Così scopriamo la sua famiglia, il posto dove è cresciuto, Rozzano, i suoi studi, le sue relazioni… O meglio, scopriamo il suo vissuto di tutto questo, che ci riporta dentro il continuo tentativo di trovare un equilibrio fra gli ostacoli, le opportunità, le sfide del mondo e il desiderio di poter scegliere da sé. La diagnosi di sieropositività è proprio l’evento che esacerba quella tensione fra scelta e mondo, perché è lì che il peso dell’incontrollabile si fa più denso, fino a essere insopportabile. Jonathan nel libro inizia infatti ad avere sintomi a cui fatica a dare senso, il suo corpo sembra andare fuori fase e assieme a esso il futuro, che perde man mano tasselli di prevedibilità.
“Come potrò vivere sapendo di avercelo nel corpo?”
Così, più tenta di rassicurare tutti (“Sì, vabbè, ma non ti preoccupare. Oggi non è più come una volta – frase di rito -, basta curarsi”), più prova a evitare la propria paura (“Ma è una comprensione piatta, superficiale. Una patina che non riesce a nascondermi la vista dello strapiombo”), più il terrore prende spazio e divora la possibilità di continuare a immaginare, possibilità che si sgretola in un continuo singhiozzo fra una visita e l’altra, fra un’incertezza e l’altra.
In altri termini, il protagonista sembra vivere non solo la minaccia esterna verso il proprio corpo, ma il timore di essere precipitato dentro un cambiamento così grande che la propria mente sappia concepirne la portata. Come dice:
“Ogni cosa che viene dall’esterno è risolvibile, la si può scansare, attraversare. Ma se è la mente stessa a diventare ostile, dove te ne vai? Cosa affronti, dove ti sposti?”
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Il futuro difficile da immaginare, la paura della paura stessa, il nostro sistema di significati che sembra aver perso la capacità di guardare oltre l’oggi. Sono convinto che queste siano alcune delle sensazioni che molti stanno vivendo in questo periodo di pandemia. C’è chi vi fa fronte negando l’esistenza della pandemia stessa, e così si sente di tornare in potere. C’è chi vi fa fronte seguendo come traccia il terrore, diventando, come si dice, più realista del re, nella speranza che questo dia respiro al desiderio di controllo. E poi ancora c’è chi insegue i dati sempre più numerosi, sempre più precisi, ma per paradosso sempre più caotici; oppure chi si arrabbia nei social media, perché preferisce mostrarsi arrabbiato piuttosto che impaurito. Ognuno, con i propri eccessi ed errori, sta tentando di trovare un modo personale di stare dentro questa situazione, e spesso anche di evitarne la portata paurosa.
Ma cosa ci spaventa tanto della paura?
Innanzitutto possiamo dire una banalità: la paura fa paura, altrimenti non sarebbe paura. Quindi puliamo il campo da tutte quelle formule tipo “con la paura bisogna…”, perché, se bastasse dirci un “bisogna”, se fosse così facile, non staremmo, appunto, parlando di paura.
Al netto di questo, però: cosa ci spaventa tanto della paura?
Io credo che la paura ci sia così insopportabile per varie ragioni. Credo che spesso colleghiamo la paura alla debolezza e altrettanto spesso vogliamo evitare di dirci deboli, per questo cerchiamo espressioni pubbliche, ma anche private, che sappiano celare la nostra paura, che si trasforma quindi anche in vergogna. E attenzione, non parlo di machismo, ma proprio della paura di sentirsi vittime di un caos che fa traballare i puntelli che negli anni abbiamo messo alla nostra casa. Ma evitando la paura, proprio perché è nostra e non del mondo di fuori, perché gli eventi spaventano ma il modo di vivere la paura ci appartiene, questa non se ne va, piuttosto assume nuove forme: sintomi fisici, terrore, il desiderio sempre più forte e frustrato di controllarla.
Riprendendo il libro di Bazzi, senza raccontare troppo, la situazione si sblocca proprio nel momento in cui il protagonista arriva a guardare in faccia le cose, a inserire la diagnosi, con tutta la sua portata emotiva, dentro la sua vita, rendendola non lo snodo ma uno degli snodi che lo rendono la persona che è oggi. È così che può riprendere a generare compromessi possibili per la sua vita futura. In altri termini, il protagonista si dà la possibilità di mettere le basi a un futuro che senta proprio, in cui paura e malattia ci sono, ma non lo tengono in ostaggio.
Questo è quello che spesso sento che facciamo in psicoterapia: ridare senso a ciò che viviamo e abbiamo vissuto, per quanto doloroso, per quanto indesiderabile, così da costruire nuove strade, nuovi compromessi, nuove relazioni. E forse per questo, per il periodo che stiamo vivendo, per rimettere assieme biografia ed eventi esterni, potremmo iniziare a ripensare il nostro rapporto con la paura, non più sintomo di debolezza, ma presenza che ci tocca avere con noi per dare corpo al futuro, in un continuo negoziare fra desideri, possibilità e paure.
Crisi è una parola di uso comune. Quando parliamo di clima, per esempio, come quando parliamo di economia, di sanità o di politica. In tuti questi contesti indica qualcosa che vorremmo evitare. Chi potrebbe mai desiderare un’altra crisi sanitaria?
Da alcuni anni, si fa un uso un po’ diverso della parola crisi nel mondo della psicologia divulgativa. Potremmo riassumerlo così: è importante abbracciare la crisi. L’idea di fondo è che, senza una crisi personale, le persone non sono disposte a cambiare le proprie abitudini, anche quelle che le fanno soffrire, perché noi esseri umani preferiamo una vita dolorosa che conosciamo, rispetto a una potenzialmente più in linea con i nostri desideri, ma che non sappiamo se può esistere per davvero. Quindi dobbiamo essere contenti di essere in crisi. Perfetto. Eppure mi chiedo: se una crisi è una crisi, ovvero un momento in cui le nostre certezze – magari non tutte ma molte – smettono di funzionare, un momento in cui non ci fidiamo più di noi stessi e quindi abbiamo paura a scegliere anche le cose più piccole, come possiamo pensare anche di doverla accogliere fin da subito, come si suol dire, come una bella opportunità?
Spesso in psicoterapia arrivano persone che vivono momenti di crisi personale, di coppia, familiare; persone che provano paura, vergogna, rabbia; persone che si guardano indietro e si incolpano per ciò che hanno e non hanno fatto, che sentono di voler cambiare, ma temono di intaccare equilibri – seppur dolorosi – faticosamente costruiti in una vita. Altrettanto spesso queste persone arrivano con un carico in più da sopportare: non sono nemmeno capace di prendere questa crisi come si deve! Così, al dolore per il vissuto personale, si aggiunge la colpa di non essere abbastanza veloci nel trasformare il dolore in forza, la sofferenza in un’esperienza con cui ci si è già pacificati.
La crisi è perciò un momento in cui ci sentiamo presi dentro un loop dal quale ci sembra impossibile uscire, da cui vorremmo fuggire il più velocemente possibile, ma temiamo che ogni scelta porti con sé implicazioni inaccettabili, allora meglio stare immobili. Ma si può davvero stare immobili se il tempo immobile non lo è?
Tutto questo si accompagna a emozioni che, talvolta come ondate di mareggiata, talvolta come sotterranei fiumi carsici, entrano nelle nostre giornate e ne lasciano il segno. Il dolore, la paura, la speranza, la delusione; la sensazione che non ci sia niente da fare e l’entusiasmo, di solito effimero, che le fa da contraltare…
E allora ci chiediamo: ma che senso ha? Sono convinto che parte del lavoro della psicoterapia sia proprio quello di rispondere a questa domanda: dare significato al dolore che viviamo, perché da lì, posizionando quel dolore dentro la nostra vita e riconoscendone il ruolo, possiamo ricostruire la nostra storia, passata e quindi futura.
E sono anche convinto che altrettanto importante sia darci il tempo di stare dentro quella crisi e quelle emozioni, dentro anche al desiderio di scappare da quella crisi, perché sono le nostre emozioni e in quanto tali ci meritiamo di rispettarle. Sono convinto che, se ci sentiamo in crisi e non viviamo questa crisi come una veloce nuvola di passaggio, allora vuol dire che quella crisi è importante nella nostra vita e merita che ce ne prendiamo cura, prima di vederla come qualcosa da ringraziare per passare oltre.
Una cosa che mi è capitato di sentirmi dire varie volte è che la psicologia e la psicoterapia non siano concrete. La medicina è concreta, l’ingegneria di certo, l’ecologia perfino, ma la psicologia e la psicoterapia non possono esserlo perché si occupano di pensieri e di emozioni, di come diamo senso a quello che viviamo e di come possiamo cambiare.
Questo modo di vedere si tramuta per molti in uno scoglio non da poco, quando sentono che qualcosa non va nelle proprie vite, ma sentono anche di non poter chiedere un aiuto perché: insomma, non è mica un problema concreto!
Allora mi chiedo: se sono concreti il mondo in cui ci troviamo, le case che abitiamo e le auto che guidiamo; se queste case e questo mondo li viviamo con dei corpi concreti anche loro… come è possibile che l’esperienza che facciamo di tutte queste cose non sia concreta?
Non è concreta l’emozione che proviamo quando nasce o quando muore una persona che amiamo? Non è concreto quell’amore? Ma pensiamo anche all’odio, al rancore, alla solitudine, alla paura di fallire e al desiderio di rischiare, all’immaginazione dei progetti di vita e all’ostinazione nel portarli avanti e al dolore nel doverli modificare e alla soddisfazione nel ritrovarli cambiati ma comunque nostri.
Ecco perché la parola che voglio riscoprire è concretezza, perché ci meritiamo di utilizzarla in modo più ampio, per esempio chiedendoci: come cambierebbe il mio modo di vivere le emozioni e i pensieri se iniziassi a dirmi che sono concreti?
Sono convinto che, se può essere utile nei momenti di serenità, avrebbe un effetto tanto più forte quando siamo in crisi, perché potremmo quantomeno smettere di incolparci di stare male per qualcosa che è solo nella nostra testa, o di dirci che si tratta solo di emozioni e idee, mentre potremmo iniziare a dirci: ok, sono nella mia testa e proprio perché sono nella mia testa e con la mia testa io do senso a quello che vivo, allora è importante che me ne occupi.
Non solo. Sono anche convinto che vedere concretezza in quello che pensiamo e proviamo, ce ne farebbe sentire maggiormente anche la responsabilità, per cui non potremmo più accantonare, ma ci troveremmo più facilmente a chiederci: come voglio e mi sento di cambiare? In che direzione?
Perché alla fine, seconcreta è l’esperienza che viviamo, che è fatta dal mondo che ci circonda, dal corpo che siamo, dalle relazioni che abitiamo, dai punti di vista che assumiamo, dalle emozioni che proviamo, dai desideri che custodiamo, allora concreti diventano anche cambiamenti a cui ci possiamo affacciare.
Secondo la Psicologia dei Costrutti Personali viviamo l’ansiaquando ci affacciamo a un futuro che non sappiamo immaginare e, tanto più questa impossibilità di immaginare riguarda una fetta rilevante della nostra vita, tanto più questa ansia si farà sentire.
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È molto comune, nella nostra cultura, l’idea per cui è bene essere qualcosa di unico: io sono così, nient’altro che così. È un racconto potente, emozionante, ma quale rischio che porta con sé? Il rischio è che, se le cose non vanno come ci aspettiamo, se arriva una pandemia, per esempio, a scombinarci i piani, ci troviamo con un pugno di mosche e, ripartire da un pugno di mosche, a cui diamo il nome di fallimento, diventa più difficile.
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Questo mix è l’esperienza che molti stanno vivendo oggi: da un lato le domande che si inseguono – cosa succederà al mio lavoro, alle mie relazioni, alle strette di mano? – dall’altro la paura che, se le cose dovessero cambiare, potremmo non riconoscerci più – che ne sarà di me se cambiano tutte queste cose della mia vita?
Per trovare un modo di stare in mezzo a questo affollarsi di domande, la parola che voglio riscoprire oggi è anche, perché, pur dentro i vincoli sociali e personali che ognuno vive, possiamo chiederci: nella mia vita sono stato anche?
Potremmo scoprire, se ci concediamo tempo e fatica, che siamo più complessi di quel monolite che ci eravamo raffigurati; potremmo scoprire lati di noi che ci piacciono e altri non vorremmo, che bontà e cattiveria, giusto e sbagliato non si distinguono in modo netto, nemmeno dentro la nostra storia; potremmo scoprire che nella nostra vita abbiamo avuto un ruolo attivo e che da lì possiamo ripartire a immaginare il futuro, per quanto anche sfocato, per quanto anche diverso da quello che ci aspettavamo, per quanto anche rischioso, ma di certo anche nostro.
Il nostro modo di vivere il tempo è quello di scandirlo: ore, giornate, mesi, anni. In questa scansione, ci sono momenti a cui diamo significati particolari. I compleanni, per esempio, che spesso portano con sé momenti di riflessione, scelte e anche crisi: ho 20, 30, 40, 50, 60, 70 anni e la mia vita?
Un momento che per molti è un’occasione per fare il punto è quello del cambio di anno: come è stato l’anno appena concluso? Cosa voglio per l’anno prossimo? Con chi voglio l’anno prossimo?
Spesso queste sono anche le domande che le persone portano con sé quando vengono in psicoterapia, perché, di fronte al desiderio di cambiare qualcosa nella propria vita, poi si chiedono: va bene, ma come faccio? Cosa succede se cambio? Come si fa?
Per questo inizio di anno, vi presento oggi un breve Ted talk che si intitola “Prima di morire voglio…” dell’artista americana Candy Chang. Nel video racconta di quando fece un esperimento: scrivere su un muro “prima di morire voglio…” e vedere cosa avrebbero scritto le persone.
Il risultato del suo esperimento potete leggerlo e vederlo qui sotto, ma noi possiamo prendere spunto e chiederci: per questo nuovo anno, voglio…
Ci sono molti modi in cui le persone attorno a noi possono migliorare le nostre vite. Non interagiamo con tutti i nostri vicini, e così tanta esperienza non viene trasferita, sebbene condividiamo gli stessi spazi pubblici.
Così gli anni passati ho cercato modi di condividere di più con i miei vicini negli spazi pubblici, usando strumenti semplici come adesivi, stencil e gessetti. Questi progetti partivano dai quesiti che mi ponevo, ad esempio, quanto pagano di affitto i miei vicini? Come possiamo prestare o farci prestare più cose senza bussare alla porta al momento sbagliato? Come possiamo condividere di più i nostri ricordi degli edifici abbandonati, e comprendere al meglio i nostri paesaggi? E come possiamo condividere di più le nostre speranze per i negozi sfitti in modo che le nostre comunità possano rispecchiare oggi le nostre necessità e i nostri sogni?
Ora, io vivo a New Orleans, e sono innamorata di New Orleans. La mia anima è sempre confortata dalle vive querce giganti, che offrono riparo ad amanti, ubriachi e sognatori da centinaia di anni, e mi fido di una città che dà sempre spazio alla musica. Ho l’impressione che appena qualcuno starnutisce, New Orleans fa una parata. La città ha tra le più belle architetture al mondo, ma è anche tra le città degli Stati Uniti con più immobili abbandonati.
Vivo vicino a questa casa, e ho pensato a come rendere lo spazio più piacevole per i miei vicini, e ho pensato anche a qualcosa che ha cambiato la mia vita per sempre.
Nel 2009, ho perso qualcuno che amavo molto. Si chiamava Joan, per me è stata una madre, e la sua morte è stata improvvisa e inaspettata. Ho pensato molto alla morte, e mi ha fatto sentire una profonda gratitudine per i momenti trascorsi, e ha fatto chiarezza sulle cose che hanno un significato per la mia vita di adesso. Ma faccio fatica a mantenere questa prospettiva nella vita di tutti i giorni. Ho l’impressione che sia facile farsi prendere dalla routine, e dimenticare quello che è davvero importante.
Così con l’aiuto di amici vecchi e nuovi, ho trasformato la facciata di questa casa abbandonata in una gigantesca lavagna e ci ho stampato su una frase da completare negli spazi vuoti: “Prima di morire, voglio…” Così chiunque passava poteva prendere un gessetto, riflettere sulla propria vita, e condividere le proprie aspirazioni personali in uno spazio pubblico.
Non sapevo cosa aspettarmi da questo esperimento, ma il giorno dopo, il muro era pieno di scritte, e hanno continuato ad aumentare. E vorrei condividere alcune cose che le persone hanno scritto su questo muro.
“Prima di morire, voglio essere processato per pirateria.” “Prima di morire, voglio stare a cavalcioni sulla Linea del Cambiamento di Data.” “Prima di morire, voglio cantare per milioni di persone.” “Prima di morire, voglio piantare un albero.” “Prima di morire, voglio vivere senza vincoli.” “Prima di morire, voglio abbracciarla un’ultima volta.” “Prima di morire, voglio correre in aiuto di qualcuno.” “Prima di morire, voglio essere me stesso, completamente.”
Così questo spazio trascurato è diventato uno spazio costruttivo, e le speranze e i sogni delle persone mi hanno fatto ridere fragorosamente, piangere, e mi hanno consolato nei periodi difficili. Si tratta di sapere che non sei solo. Si tratta di capire i tuoi vicini in un modo nuovo e istruttivo. Si tratta di fare spazio alla riflessione e alla contemplazione, e ricordare quello che davvero ci importa di più mentre cresciamo e cambiamo.
L’ho realizzato l’anno scorso, e ho iniziato a ricevere centinaia di messaggi da appassionati che volevano realizzare un muro all’interno della loro comunità, così insieme ai miei colleghi del centro civico abbiamo creato un kit e ad oggi sono stati trasformati muri nei paesi di tutto il mondo, incluso il Kazakistan, il Sud Africa, l’Australia, l’Argentina e oltre. Insieme, abbiamo mostrato quanto coinvolgente possa essere lo spazio pubblico se ci viene data l’opportunità di dire la nostra e condividere di più gli uni con gli altri.
Due delle cose più preziose che abbiamo sono il tempo e i rapporti interpersonali. In un’epoca in cui aumentano le distrazioni, è diventato sempre più importante trovare il modo di mantenere la giusta prospettiva e ricordare che la vita è breve e fragile. La morte è qualcosa di cui preferiamo non parlare o a cui preferiamo non pensare ma, mi sono resa conto che prepararsi alla morte è una delle cose che ti dà maggiore forza. Pensare alla morte chiarisce la nostra vita.
Gli spazi condivisi possono rispecchiare al meglio ciò che è importante per noi come individui e come comunità, e con sempre più modi di condividere le nostre speranze, paure e storie, le persone intorno a noi possono aiutarci non solo a rendere migliore i luoghi, ma anche a condurre una vita migliore.
Un’emozione che molte persone che vorrebbero rivolgersi a uno psicologo, o iniziare un percorso di psicoterapia, dicono di vivere è la vergogna. Cosa penserebbero gli altri se sapessero che vado dallo psicologo? E cosa dovrei pensare di me?
Spesso questa vergogna nasce da due idee:
– da un lato una visione di autonomia e forza per la quale le persone riescono a risolversi da sole i propri problemi;
– dall’altro la sensazione per cui gli altri non vivono quello che viviamo noi; la sensazione per la quale le vite degli altri procedano nel modo “giusto” perché loro sono capaci di vivere, mentre noi no.
Questi presupposti, per molti, si rivelano un ostacolo complesso da superare prima di potersi permettere di dire: bene, voglio iniziare una psicoterapia.
Nel mondo della musica, un genere che ha sempre fatto del machismo e della dimostrazione della forza due dei suoi punti cardine, è il rap.
In molte canzoni rap – non in tutte – l’autocelebrazione è un elemento centrale: io sono forte, io ce l’ho fatta, io mi sono costruito con le mie sole mani.
Pur restando questi aspetti, è vero che anche il mondo del rap sta vivendo dei cambiamenti, grazie ai quali, per esempio, ci sono oggi sempre più musicisti che si sentono liberi di dichiarare la propria omosessualità, cosa impensabile già solo quindici anni fa; ci sono più donne che possono spiccare; il panorama di tematiche di cui alcuni scelgono di parlare nelle canzoni è più ampio.
Non è un caso che, sempre in questi ultimi anni, molti rapper importanti stiano scegliendo anche di far cadere la maschera da machi in favore di un racconto di sé più umano, semplicemente, potremmo dire, di ricordarsi che sono persone, e che quindi, come tutte le persone, hanno dei problemi, che come molte persone vanno dallo psicologo.
Questa cortina è stata rotta in primis dal rapper americano Jay-Z, che due anni fa, in una lunga intervista rilasciata al direttore del New York Times, non solo disse che finalmente aveva potuto far cadere i ruoli che doveva indossare all’inizio della carriera – “questo è chi sono”, dice, e poi “la cosa più forte che un uomo può fare è mostrarsi vulnerabile” – ma anche di come andare in psicoterapia individuale e di coppia gli abbia permesso non solo di cambiare, ma anche di ricostruire il suo matrimonio.
Qualche settimana fa è uscita un’intervista a un famoso rapper italiano che parla della propria psicoterapia.
Fabio Bartolo Rizzo, in arte Marracash, ha raccontato con molta onestà la sua psicoterapia, le ragioni per cui ci è andato e il beneficio che ne ha tratto.
Per non dilungarmi, lascio che siano le sue parole, di cui riporto qualche stralcio assieme al video dell’intervista completa, a parlare, perché sono convinto si spieghino da sé.
“Un po’ tutti abbiamo delle cose che non ci fanno stare bene con noi stessi: la differenza è quando sei in grado di tirarle fuori. Ci sono persone che non riescono neanche a parlarne con loro stessi, ma queste cose ci sono comunque e magari le somatizzano in altri modi
[…]
La cosa che funziona è che a un certo punto lui (lo psicologo) ti fa delle domande, o ti fa fare delle domande che non ti sei fatto da solo. Andare da lui è servito a capirmi e ad accettarmi di più.
[…] Una delle cose più importanti di quest’ultima crisi è che non sapevo più in che cosa credere. Mi sembrava tutto finto: le relazioni, l’amore… non avevo più motivazione per alzarmi al mattino e fare le cose.
[…]
Se penso che andavo dallo psicologo, gli raccontavo che non riuscivo a scrivere, che non sapevo se avrei fatto un altro disco e come mi sentivo qualche mese fa, è incredibile come la mia vita sia ripartita“.