
Illustrazione di Wren McDonald, apparsa sul New Yorker.
“Il cuore ha buona memoria”
Mo Daviau, Aspettare ne valeva la pena
L’estate per molti e anche per me è un periodo in cui le letture si intensificano. La riduzione degli impegni quotidiani permette di dedicarsi a un’attività che sembra così controcorrente rispetto alla vita di tutti i giorni. Leggere infatti richiede di fermarsi, scoprire “la forma del cervello di un altro essere umano”1, l’autore, mettersi nei panni talvolta scomodi di persone che non siamo noi, i personaggi, scoprire come quelle vite, quei modi di vedere, quelle emozioni risuonano dentro di noi e da lì riconoscere dei nostri aspetti che, magari, ci sorprendono.
Questa estate, fra gli altri, mi sono imbattuto nel romanzo d’esordio di un’autrice americana – Mo Daviau – che si intitola Aspettare ne valeva la pena, edito dalla giovane casa editrice Ottotipi edizioni.
La storia che l’autrice racconta è una storia di relazioni, musica e viaggi nel tempo. Ebbene sì, i protagonisti hanno trovato il modo di viaggiare sia nel passato, sia nel futuro. In principio è tutto molto bello, questi viaggi permettono a Carl Bender e soci di recuperare i concerti a cui sognavano assistere, ma piano, piano, questa possibilità di muoversi liberamente negli anni, anche della propria vita, non solo crea problemi concreti, ma soprattutto genera dubbi.
Voglio veramente scoprire cosa mi accadrà in futuro?
Voglio veramente cambiare ciò che mi è accaduto in passato?
Chi diventerei se potessi cambiare la mia storia?
Ecco la forza universale della lettura: le loro domande diventano le nostre. Chi di noi non ha vissuto eventi, momenti, periodi, oppure fatto scelte nel proprio passato che a pensarci lo fanno soffrire e che, se potesse viaggiare nel tempo, vorrebbe cancellare dalla propria biografia? Ma cosa accadrebbe?
Quello che succede nel romanzo – senza svelarvi troppo – è duplice: da un lato cambia tutto, ma dall’altro resta tutto stabile, perché un solo episodio nella vita di una persona, per quanto possa essere importante, non è tutta la vita di quella persona.
E quindi, noi che i viaggi nel tempo non li possiamo fare, cosa ce ne facciamo di ciò che ci vorremmo cancellare?
Spesso nella stanza della terapia si ha a che fare proprio con quel passato che ci dà sofferenza, perché le persone hanno bisogno uno spazio per parlarne, piangerne, magari arrabbiarsi, e perché, come dicevamo, qualcuno vorrebbe che non fosse mai esistito. Ciò che poi si scopre, però, è che nella propria psicoterapia, se da un lato c’è lo spazio per contenere assieme a un’altra persona quella sofferenza, dall’altro non ci si può limitare solo a quel momento.
Nella stanza della terapia allora succede che la nostra storia si arricchisca, fino al punto che

Illustrazione di Guido Scarabottolo
quell’episodio diventa uno degli episodi della nostra esistenza, e che la nostra storia smette di essere una sola linea che collega pochi punti, come nella settimana enigmistica, ma piuttosto, un fiume attraversato da tante correnti che ci hanno formato, ci formano e ci permettono di cambiare.
Allora, potremmo dire che, anche nella stanza della terapia possiamo viaggiare nel tempo, non per cancellare dei pezzi della nostra vita, ma per cambiare la storia che raccontiamo e per ampliare il romanzo che siamo.
Alessandro Busi
Mestrino, Padova e su Skype
1Z. Smith, “Perché scrivere”, Roma, Minimum Fax