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Alessandro Busi Psicoterapeuta Padova

Ogni vita merita un romanzo

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Tag: scelta

Quando il gatto non c’è?

29 luglio 202229 luglio 2022Lascia un commento

Qualche giorno fa mi sono imbattuto in una vignetta di Christopher Weyant. Un topo dice all’altro, Odio ammetterlo ma, ora che il gatto è fuori, non so cosa fare con il mio tempo libero.
Il richiamo di Weyant è chiaramente al famoso detto dei topi che ballerebbero in assenza del gatto, ma sembra chiedere: siamo sicuri che succeda proprio così?
Non strappa il sorriso solo per il gioco con il modo di dire, ne richiama uno più amaro perché quella domanda sembra rivolgersi direttamente al lettore: quando il tuo gatto non c’è, cosa fai?
Potremmo riformularla domanda così: quando quello che consideri il tuo gatto sarà fuori, cosa farai?

La vignetta di Weyant apparsa nel numero del 25/7/22 del New Yorker

Se ci pensiamo, è un’esperienza comune quella di dirci che quando una data situazione smetterà di esserci, allora potremo iniziare a fare quello che desideriamo.
Quando sarò in ferie, farò.
Quando avrò abbastanza soldi, farò.
Quando mi sposerò, quando compirò trenta/quaranta/sessant’anni, quando avrò un figlio, quando avrò il lavoro xy… solo allora potrò.
È un’esperienza comune sentire di essere dentro dei vincoli percepiti come troppo stretti, così stretti da impedire ogni movimento nel presente, se non nella possibilità di fantasticare. Fantasticare serve a immaginare il possibile che sarà possibile, serve a pianificare, o anche solo a dare corpo mentale a dei desideri che rimarranno tali; di certo permette di spostare dentro un futuro inaccessibile alcune cose che vorremmo e che al contempo ci spaventano, non per nostra volontà, ma – per stare nella vignetta – per la presenza del gatto.

Questo funziona fino a che succede qualcosa.
Alle volte è Il gatto che se ne va (es. le ferie iniziano, i soldi ci sono, il matrimonio avviene), altre volte arriva uno scossone nella vita – una pandemia, un compleanno… ognuno ha le proprie pietre miliari – che trasformano il modo di vivere il tempo, per cui quello spostamento nel futuro, da rassicurante diventa insostenibile.
Le ragioni per cui rimandavamo ci sembrano meno significative.
La prospettiva del domani toglie il respiro perché è diventata fattibile e perciò irraggiungibile.
D’altro canto, anche l’idea di scegliere quella cosa rimandata per tanto tempo è a sua volta insostenibile, perché, se la rimandavamo, avevamo – più e meno consapevolmente – delle ragioni: magari ci spaventano i cambiamenti che potrebbe implicare, quelli che potrebbe portare nelle relazioni che viviamo, come si sconvolgerebbe la nostra vita.
Quindi, quando il gatto non c’è, possiamo trovarci dentro esperienze di ansia, dentro l’insofferenza per la ripetizione di comportamenti che non ci piacciono e che non troviamo più ragionevoli, possiamo chiuderci, sentendo di non avere alternative da percorrere.

Ma allora basta agire!
Questa è la reazione che viene più facile pensare.
Se non ti piace come vivi, cambia!
Spesso troviamo online pagine che ci danno ingiunzioni di questo tipo. Liberati delle persone che non ti piacciono! Fai solo quello che desideri! Non procrastinare! Non rimandare! e via dicendo.
Non entro nella bontà in sé delle idee, metto una domanda: se fosse così facile, non lo faremmo già?
Se il topo della vignetta avesse facilità a scegliere di ballare o fare quello che desidera o capire quello che desidera, non parlerebbe con l’amico con quell’espressione allarmata più che preoccupata, banalmente: agirebbe.
Allo stesso modo ognuno di noi – più e meno consapevolmente – percorre la strada che trova più percorribile per sé, che non vuol dire sia sempre quella che desidera, o che aveva sognato, ma quella nella quale sente di poter camminare in quel momento della sua vita, a partire dal suo modo di vedere il mondo, le relazioni, se stesso.

Illustrazione di Gordon Johnson

Spesso succede che in psicoterapia arrivino persone che si sentono strette dentro questa morsa: da un lato, una vita così tanto spesa ad aspettare che il gatto uscisse da non sapersi pensare in modo diverso da “persona che aspetta che il gatto se ne vada”; dall’altro, sentirsi colpevole di non riuscire a seguire i buoni consigli ricevuti e i desideri che sente propri: è vero, sarebbe così semplice, perché non ci riesco?
E questa morsa si alimenta con il tempo che passa, che giorno dopo giorno dà vigore alle sensazioni di incapacità e di mancanza di alternative che dicevamo prima.
Per questa ragione, il lavoro in terapia può servire come spazio per capire cosa sta succedendo, dare rilevanza ai propri paure-speranze-desideri-rabbie…, recuperare il senso più ampio possibile che ha per noi stare in una situazione anche se fa soffrire e aver costruito i compromessi della nostra vita, ricostruire il gatto e la sua ossatura per dare significato al legame che abbiamo vissuto con lui negli anni, comprendere cosa immaginiamo per noi e per le relazioni che amiamo quando pensiamo di fare cose diverse; e da lì, se e quando sarà possibile, con i tempi che ognuno sente per sé percorribili, prendere in mano queste scelte e chiederci: ok, il gatto ha fatto parte della mia vita, ha avuto un ruolo significativo, anche con la sua presenza ho scritto questa storia. Ora che non c’è più, cosa mi sento di fare?

Alessandro Busi
Psicologo e psicoterapeuta
a Padova, Mestrino e online

La riscoperta delle parole #12: Storia

14 marzo 202112 marzo 2021

In questi mesi mi è successo di ascoltare alcuni podcast dello storico Alessandro Barbero.
Il modo che usa per avvicinarci agli eventi storici è quello di focalizzarsi sul senso che aveva per le persone dell’epoca comportarsi in quello specifico modo. È una precisazione che fa spesso: non pretendete di guardare con gli occhi di oggi gli eventi e le persone del passato, se li si volete capire.
Perché Cavour spinse tanto per l’Unità d’Italia? Perché i soldati italiani accettarono di combattere a Caporetto? Perché scoppiò la rivoluzione francese?
Se vogliamo capirli dobbiamo provare a metterci nei desideri di Cavour, nelle aspettative dei soldati sul fronte della Grande Guerra, nella visione del mondo e della società che c’era in Francia alla fine del ‘700.

***

Una sensazione che molte persone raccontano in psicoterapia è questa: la paura di aver sprecato il proprio tempo, di non aver scelto quello che volevano ma, talvolta quello che dovevano, talvolta quello che la vita faceva capitare loro sotto i piedi.
Questa sensazione porta con sé un rosario di altre sensazioni che vanno dall’incolparsi, al sentire il peso del tempo che passa, al pensare di aver sbagliato, o peggio ancora di avere qualcosa di intrinsecamente sbagliato: perché tutti gli altri sono capaci di vivere e io no?
Questa visione apre purtroppo a uno scenario difficile da scardinare, perché è lo scenario nel quale sentiamo di non avere la possibilità di incidere in prima persona in quello che sembra essere un destino già scritto.

Un’altra sensazione ricorrente in terapia è però anche lo stupore; lo stupore di prendersi del tempo per chiedersi: ma io, questa vita, come l’ho costruita?
Lo stupore, a volte piacevole e a volte doloroso, di guardare al proprio tempo, alle emozioni provate, ai bivi di fronte ai quali ci si è trovati, e ridare senso alle scelte fatte, che magari non erano quelle più desiderate, ma di certo erano quelle più sensate in quel momento.
In questo modo, infatti, possiamo scoprire che non abbiamo vissuto la vita dei sogni, ma quella che, dentro tutte le asperità che ci sono toccate, ci siamo conquistati. Le occasioni sprecate potrebbero iniziare ad avere un senso, e così il tempo lasciato andare, le scelte che ci apparivano così sbagliate.
Allo stesso modo possiamo capire anche quello che ci sentiamo di fare e di non fare oggi, quello che vogliamo e quello che ancora ci fa troppa paura; e da lì immaginare strade alternative e aprirci, se e come ce la sentiamo, a nuove possibilità.
Perché, se per comprendere la peste del ‘300, come dice Barbero, dobbiamo entrare negli occhi di chi viveva all’epoca, come possiamo pretendere di capire la nostra vita senza dare valore alla nostra storia?

Alessandro Busi
psicologo e psicoterapeuta
a Padova, Mestrino e su Skype

Le precedenti parole riscoperte sono: attesa, quasi, vulnerabilità, come se, relazione, virtuale, anche, compromesso, concretezza, crisi e paura.

Verso la fine dell’anno. Che anno?

15 dicembre 202013 dicembre 2020
Particolare della copertina del calendario 2020 di Guido Scarabottolo

È dicembre inoltrato e ci stiamo quindi muovendo verso la fine del 2020.
“Per fortuna!”, aggiungeranno molti.
È comprensibile, perché – dico una banalità – il 2020 ha messo a soqquadro le nostre vite. Chi, a gennaio, avrebbe potuto immaginare quello che sarebbe successo da lì a pochi giorni?
Se qualcuno ci avesse detto: non vi abbraccerete, non vi darete la mano, girerete sempre con indosso una mascherina, gli avremmo fatto i complimenti per la fantasia e gli avremmo consigliato di scriverci un bel libro di fantascienza, ma chi gli avrebbe creduto?
E invece eccoci qui, a sfruttare più che possiamo quella che molti etologi sostengono essere la migliore qualità dell’essere umano: la capacità di cambiare le proprie abitudini, per adattarsi all’ambiente che lo circonda.
Cambiare abitudini, però, dovrebbe essere un processo graduale, perché le abitudini, se le abbiamo costruite negli anni, vuol dire che per noi avevano un senso, quindi, modificarle implica modificare anche il nostro modo di vedere e stare al mondo.
Con la gradualità è possibile (e sottolineo possibile) che ci percepiamo attori protagonisti di questo processo, per cui sentiamo che anche le nuove abitudini hanno senso; altrimenti, è più probabile che viviamo questi cambiamenti come una strozzatura della nostra libertà di scelta, che si assoggetta a un mondo esterno che non avevamo mai sentito così opprimente.
Che sia questa la pandemic fatigue (fatica da pandemia) di cui tanto si parla? Non lo so. Di certo, non stiamo parlando di un’etichetta astratta, ma di cose molto concrete: pensieri, preoccupazioni, difficoltà a prevedere il futuro che abbiamo davanti; ansia, dolore, paura; modi di stare assieme, modi di stare in famiglia, in coppia, con gli amici; l’importanza del lavoro e degli hobby, le uscite del sabato, il nostro rapporto con la tecnologia, il nostro rapporto con i soldi… e potrei proseguire così a lungo da annoiarci.

Sono convinto che parte della difficoltà a stare dentro questo periodo – accanto al nostro esserci scoperti vulnerabili – nasca dal rapporto con la libertà e con le relazioni.
Il cambiamento più grande dentro il quale ci troviamo, infatti, è proprio la necessità di considerare che non siamo liberi al cento per cento, ma ogni nostra scelta, azione, è frutto di compromesso. Ma prima della pandemia, non era già così? Io credo di sì, solo che, nel mondo per come eravamo abituati a conoscerlo prima di marzo 2020, tutto rientrava nella normalità delle cose.
Quante volte, più o meno consapevolmente, ci siamo per esempio chiesti: “preferisco comportarmi in questo modo che desidero, avendo la sensazione di deludere chi mi vuole bene, oppure in quest’altro, deludendo il mio desiderio, ma sperando di fare contente le persone che amo? E chi mi sento di essere se scelgo una strada invece che l’altra?“
Ognuno di noi ha costruito la propria vita per esperimenti e aggiustamenti, per compromessi, e i compromessi possono essere tanto meno dolorosi, quanto più sentiamo che per noi hanno senso. Il che non significa che siamo sempre andati nella direzione che desideravamo, no, ma che, anche quando ci siamo rassegnati, siamo stati noi a rassegnarci e quella rassegnazione ci ha visti attori protagonisti.
Non credo che fare ciò sia facile, anzi, e spesso la psicoterapia è anche questo spazio, lo spazio nel quale ricostruire il senso delle scelte fatte, delle emozioni vissute, sperate ed evitate, per sentire che la nostra vita ha un respiro ampio e per poterci chiedere: pur all’interno dei vincoli della mia vita, che direzione mi sento di prendere da qui?

Dicevamo che il 2020 sta volgendo al termine.
Per molti la chiusura di un anno è un momento nel quale fare il punto. Fare il punto di un anno così, però, è difficile, quindi potrebbe essere forte la tentazione di chiudere gli occhi e sperare che il 2020 finisca e porti via con sé tutto.
Purtroppo, e lo sappiamo tanto bene quanto lo speriamo, non andrà così. I nuovi vincoli che il mondo attorno ci pone li troveremo a gennaio e nei mesi a venire. Cambieranno, cambieremo, ma non scompariranno, quindi dovremo ancora farci i conti, proprio come abbiamo fatto fino a ora.
Un’alternativa che abbiamo per poterci aprire a un 2021 nel quale sentirci un po’ più capaci di surfare sopra questo mare mosso, provando a non farci sommergere dal caos o a dare un senso al nostro eventuale sommergerci, potrebbe essere quella di riguardare al 2020 e chiederci: dentro a tutto questo, cosa ho fatto? E quando ce lo chiediamo, fare uno sforzo per andare a fondo. Così, per esempio: sì, facevo il pane, ma mentre facevo il pane, cosa facevo?
Potremmo scoprire che, mentre facevamo il pane, ci stavamo coccolando, speravamo fosse un modo per prenderci cura delle persone a cui vogliamo bene, ci stavamo sforzando a costruire una routine nuova che ricostruisse una prevedibilità nelle giornate senza le uscite di casa, e chissà cos’altro.
In questo modo non scomparirà l’impatto emotivo, anche doloroso, di questo periodo, ma sono convinto che, più aspetti ci sentiamo di esplorare in questo modo, più possiamo scoprire che anche questo 2020 lo abbiamo vissuto, non nel modo che speravamo a gennaio, ma comunque dando la nostra impronta, anche la nostra impronta. Quindi possiamo chiederci: che impronta ho dato a questo 2020?

Alessandro Busi
psicoterapeuta a Padova, Mestrino e su Skype

Non tutta l’ansia viene per nuocere: incontrare il limite per aprire nuove possibilità.

13 settembre 201618 marzo 2020

ilaria2

Illustrazione tratta dal libro “A che Pensi?” di Laurent Moreau, ed. Orecchio Acerbo, 2012

Ilaria1 ha 29 anni, una statura media e ama indossare vestiti colorati. È arrivata al Milano dal suo paese al sud per l’università e, una cosa tira l’altra, lì si è fermata. 

Il giorno della sua laurea, in un caldo luglio di ormai tre anni fa, salì a festeggiarla tutta la famiglia. Se ci fosse stato un detector di emozioni e sensazioni, avrebbe rilevato una grande presenza di: orgoglio, aspettative e speranze, gioia, nostalgia e anche un pizzico di preoccupazione.

Dal settembre successivo, Ilaria si dedicò alla consegna del curriculum in vari istituti scolastici – pubblici e privati – della città.

La sua fortuna fu che, grazie a un incrocio di maternità e malattie, iniziò fin da subito una serie di supplenze, per cui poté pagarsi il TFA [Tirocinio Formativo Attivo per essere abilitata a diventare insegnante di ruolo] e oggi può partecipare al tanto agognato concorso.

Ilaria è a letto e la sveglia al led indica le 00 e 18.

“Eccolo”, pensa, quando sente il primo formicolio alle mani.

Da qualche mese le capita quasi ogni sera, tanto che ormai, pur non volendo, lo aspetta.

Si stende sulla schiena e inizia a contare, come le aveva consigliato un’amica.

“dieci, undici, dodici… e se va male? E se non passo?…”

Sembra che i pensieri escano magicamente dal suo controllo e, più lei tenta di arginarli, più sbucano come acqua dalle crepe di una diga.

“tredici, quattordici, quindici… e se va bene? E se…”

Si alza di scatto e accende la luce. Respira col fiatone.

Prende il libro dal comodino e legge qualche pagina prima che il cuore rallenti e gli occhi le si chiudano.

/

Gli scritti sono passati e all’orale sono stati ammessi talmente pochi che la speranza è alta. Mancano tre giorni. Ilaria è al telefono con sua madre.

«Sei agitata?»

«No, mamma, sono abbastanza tranquilla»

«E con l’ansia come va?»

«Meglio, mamma, grazie»

«Guarda che è normale essere un po’ in ansia, ma vedrai che passerai sicuro»

«Certo, mamma, lo spero proprio».

Più risponde alle domande di sua madre, più sente la sua voce che diventa monotonale. Sa quello che deve dire, ma cosa vuole dire?

Quando riattacca, sente la bocca che le si tende e le lacrime iniziano a scendere. Si lascia cadere sul divano e resta a singhiozzare nella casa silenziosa.

“Cosa mi succede?”, pensa, “dovrei essere felice, invece… che stupida!”

Il pensiero si tramuta in veloci flash che si susseguono, uno dopo l’altro, come un treno coi vagoni disordinati a cui non sa dare un senso: il duomo di Milano, gli studenti, il mare, la sua famiglia, la metropolitana, i banchi, pane e panelle, il suo monolocale…

“Dovrei essere contenta”, si ripete, “dovrei…”

/

Ilaria passa il concorso e diventa insegnante di lettere di ruolo in un liceo scientifico di periferia. I mesi sfilano e il lavoro le piace, eppure non riesce a togliersi dal torace quella strana sensazione di peso.

“Perché vivo qui? Voglio vivere qui? Come potrei cambiare, ormai? È questa la vita che voglio? Qual è la vita che voglio?”, sono alcune delle domande che le sbucano in testa, sempre più spesso.

Poco dopo Natale, tornata a Milano dalle vacanze in famiglia, decide di rivolgersi a uno psicoterapeuta della sua zona e inizia un percorso. Inizia in punta di piedi, quasi spaventata da quello che potrebbe scoprire.

Con un pensiero che faticherebbe a tramutare in parole, immagina di dover fare una radiografia e di scoprirsi diversa da chi pensa di essere.

Piano, piano, entra nel viaggio terapeutico e lo costruisce assieme al suo terapeuta, lo rende il proprio percorso, il proprio spazio: non un esame calato dall’alto, ma un racconto work in progress con il finale tutto da scoprire.

Nel corso dei colloqui Ilaria esplora la propria vita, le proprie scelte e prova a disegnare il futuro, i futuri, che vorrebbe: prova a immaginare in quali si vedrebbe e in quali no.

Inizia a pensare a quante cose ha dato per scontate nei propri 34 anni, a quante decisioni ha preso senza accorgersene, a quanto sia rimasta in attesa del «momento giusto» per ascoltare i propri desideri. Dà un senso a questo modo di vivere e trova il filo rosso ha percorso la sua vita. Non sempre le piace questo filo, non sempre è piacevole riconoscerselo, ma sa che è il suo, sa che è lei, e che da lì può partire per sperimentarsi diversa. 

«La sensazione più forte non è quella che ora sia tutto rose e fiori», racconta una domenica mattina a un’amica davanti a un cappuccino, «è quella di aver ripreso in mano la mia vita, di sapere che, se voglio, posso anche fare cose diverse».

E l’ansia di prima? Che fine ha fatto?

Ilaria inizia a pensare anche a quell’ansia come a qualcosa che è stato suo e prova a darle un ruolo, un senso. La pensa come un segnale utile, una comunicazione che lei dava a se stessa, proprio in un momento in cui la sua vita stava cambiando e sentiva che le stava scivolando via, ma non sapeva dirselo diversamente.

«Sa, dottore», commenta con un mezzo sorriso durante un colloquio, «non tutta l’ansia vien per nuocere».

Alessandro Busi
Mestrino, Padova e su Skype

1 Gli eventi raccontati sono frutto della fantasia dell’autore. Ogni riferimento a fatti e persone realmente accaduti è puramente casuale.

Attacchi di panico: in che altri modi posso essere?

23 febbraio 201618 marzo 2020

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Illustrazione di Shout

Mario* ha 42 anni. Ha una moglie di due anni più giovane e due figli: una ragazza di 12 anni e un bambino di 7.

Da dieci anni fa l’informatore farmaceutico, quindi, le sue settimane scorrono fra uno studio medico e l’altro, sempre alla guida dell’auto.

Il sabato e la domenica gli piace fare passeggiate sui colli con la famiglia, gli piace guardare Quelli che il calcio…, gli piace addormentarsi sul divano con sua moglie.

Questa è la sua quotidianità, questa è la sua vita: la settimana di corsa e il fine-settimana a rilassarsi.

Il primo episodio fu nella sala d’attesa di uno studio medico. Seduto di fronte alla segretaria, sentì la sudorazione aumentare, il corpo farsi caldo e il battito del cuore velocizzarsi.

“Che mi sta succedendo?”, pensò, prima di uscire in strada, sedersi in auto, chiudere gli occhi e dare un ritmo al respiro.

Bastarono pochi minuti per tranquillizzarsi. Diede la colpa al lavoro, alla crisi, al suo capo che gli aveva aggiunto delle zone da coprire. Per non dare preoccupazioni, non ne parò con nessuno.

Altri episodi seguirono il primo e, ogni volta, i minuti per far cessare quel malessere aumentavano. Cinque, dieci, quindici, fino a doversi allontanare dal lavoro.

“C’è qualcosa che non va al cuore”, pensò e per questo lo disse a sua moglie, con cui decisero di fare qualche controllo medico. Gli esami diedero tutti esito negativo: nessun problema fisico poteva giustificare quei suoi malesseri.

L’episodio più grave capitò durante una passeggiata con la famiglia sui colli. Mario si sedette su una roccia, accovacciato, con il cuore che gli scoppiava sotto lo sterno. Guardava a terra per non incrociare lo sguardo preoccupato dei figli, ma sentiva che il più piccolo singhiozzava. La moglie provava a chiamare un’ambulanza, ma non c’era campo.

“Sto morendo” pensava, sentendo il fiato farsi sempre più corto.

Dopo più di mezz’ora, riuscì a rialzarsi in piedi e, sostenuto dalla moglie, arrivò all’auto. Nel tragitto verso casa, nessuno parlava e, al posto di guida, per la prima volta da quando stavano assieme, si sedette lei.

Mario guardava fuori dal finestrino. Era sudato e sfinito, ma più di tutto, sentiva che qualcosa gli stava sfuggendo nella sua vita. Aveva voglia di piangere, di farsi abbracciare, ma sentiva che non poteva, perché “Mario” non è così. Mario non ha bisogno di niente. Mario è forte. Mario è una roccia.

“Che mi sta succedendo?”, si ripeteva.

Mario iniziò una psicoterapia molto titubante, più che altro per far contenta la moglie.

Nei primi colloqui esplorò la sua storia. Dentro di sé sperava che il terapeuta gli desse delle risposte per farlo “tornare apposto”. Nonostante queste risposte non arrivassero, continuò perché gli attacchi si erano ridotti fino a scomparire.

Proseguendo, iniziò a pensare che quegli attacchi di panico erano il suo modo per comunicare, per chiedere aiuto, per chiedere di cambiare, tutte cose che per lui erano altrimenti impossibili da dire. E si chiese:

In che altri modi posso essere?

Mario scoprì, non senza difficoltà, che nella vita poteva essere una roccia, ma anche altro; che con i figli, la moglie, al lavoro, non era obbligato ad avere solo un modo d’essere. Sperimentò che poteva chiedere aiuto e questo gli permise di pensarsi forte in maniera diversa, nuova. Non doveva sempre essere lui a tenere in mano il volante, pensò.

Attraverso il percorso terapeutico Mario non eliminò tutti i problemi dalla sua vita, ma indossò altri vestiti per essere se stesso, scoprendo quindi altri modi di affrontare le cose e di stare assieme agli altri. Attraverso il percorso terapeutico Mario scoprì che i posti in auto sono più di uno e che, a modo proprio, poteva scegliere dove sedersi.

Dr. Alessandro Busi
Mestrino, Padova e su Skype

*I personaggi e le vicende raccontate sono frutto di invenzione dell’autore. Ogni riferimento a fatti realmente accaduti e persone realmente esistenti è puramente casuale.

Possiamo evitare di scegliere?

18 gennaio 201618 marzo 2020

choices

Mi piace iniziare a pubblicare brevi spunti di riflessione parlando di un tema caro alla Psicologia dei Costrutti Personali: la scelta.

Cosa vuol dire scegliere?

Spesso leghiamo l’idea di scelta a quello che facciamo in maniera semplice (Crudo o cotto? Mi dia un etto di cotto, grazie), oppure a qualcosa di grande e definitivo (Ho scelto: non possiamo più vivere assieme).

Cosa hanno in comune questi due modi di vedere la scelta?

In entrambi i casi, la scelta è pensata, è fatta in modo consapevole. Il resto non lo scegliamo, semplicemente ci capita.

Bene, allora mi chiedo: cosa succederebbe se a questi modi di vedere la scelta, ne aggiungessimo un altro?

Come vedremmo le nostre vite se scegliere fosse ciò che facciamo in ogni momento?

Il semaforo diventa rosso, mi fermo o proseguo?

Il lavoro va male, cerco altro, faccio finta di niente finché dura, mi lascio abbattere?

Il lavoro va bene, sono felice, o penso che andrà male domani e mi rattristo?

Gli esempi potrebbero essere moltissimi, ma il punto è che non c’è istante in cui non scegliamo, chiaramente dentro i limiti della nostra vita.

E quando lo facciamo, facciamo una scelta che è la nostra, frutto di come vediamo il mondo, cosa ci aspettiamo succeda, cosa temiamo e speriamo, come vogliamo essere, quali reazioni ci aspettiamo dagli altri, e via dicendo.

Questo vuol dire che come psicologo, quando mi siedo di fronte a una persona, a un paziente, sono di fronte a una storia di scelte, tutte con il loro senso e la loro importanza, tutte legate l’una all’altra in un susseguirsi che non è né giusto, né sbagliato, è il proprio personale.

Questo vuol dire che la persona che si trova in un momento di difficoltà, come ha costruito il percorso che in quel momento è in una fase di sofferenza, può anche cambiarlo, può ricostruirsi, ripensare alle proprie scelte e farne di nuove.

Questo vuol dire che se pensiamo alla nostra vita come a una serie di scelte e riconosciamo il nostro ruolo attivo in esse, da lì possiamo iniziare a cambiare le cose.

Alessandro Busi
Mestrino, Padova e su Skype

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3275389290 alessandrobusi.psy@gmail.com

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