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Alessandro Busi Psicoterapeuta Padova

Ogni vita merita un romanzo

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Tag: crisi

La riscoperta delle parole #12: Storia

14 marzo 202112 marzo 2021

In questi mesi mi è successo di ascoltare alcuni podcast dello storico Alessandro Barbero.
Il modo che usa per avvicinarci agli eventi storici è quello di focalizzarsi sul senso che aveva per le persone dell’epoca comportarsi in quello specifico modo. È una precisazione che fa spesso: non pretendete di guardare con gli occhi di oggi gli eventi e le persone del passato, se li si volete capire.
Perché Cavour spinse tanto per l’Unità d’Italia? Perché i soldati italiani accettarono di combattere a Caporetto? Perché scoppiò la rivoluzione francese?
Se vogliamo capirli dobbiamo provare a metterci nei desideri di Cavour, nelle aspettative dei soldati sul fronte della Grande Guerra, nella visione del mondo e della società che c’era in Francia alla fine del ‘700.

***

Una sensazione che molte persone raccontano in psicoterapia è questa: la paura di aver sprecato il proprio tempo, di non aver scelto quello che volevano ma, talvolta quello che dovevano, talvolta quello che la vita faceva capitare loro sotto i piedi.
Questa sensazione porta con sé un rosario di altre sensazioni che vanno dall’incolparsi, al sentire il peso del tempo che passa, al pensare di aver sbagliato, o peggio ancora di avere qualcosa di intrinsecamente sbagliato: perché tutti gli altri sono capaci di vivere e io no?
Questa visione apre purtroppo a uno scenario difficile da scardinare, perché è lo scenario nel quale sentiamo di non avere la possibilità di incidere in prima persona in quello che sembra essere un destino già scritto.

Un’altra sensazione ricorrente in terapia è però anche lo stupore; lo stupore di prendersi del tempo per chiedersi: ma io, questa vita, come l’ho costruita?
Lo stupore, a volte piacevole e a volte doloroso, di guardare al proprio tempo, alle emozioni provate, ai bivi di fronte ai quali ci si è trovati, e ridare senso alle scelte fatte, che magari non erano quelle più desiderate, ma di certo erano quelle più sensate in quel momento.
In questo modo, infatti, possiamo scoprire che non abbiamo vissuto la vita dei sogni, ma quella che, dentro tutte le asperità che ci sono toccate, ci siamo conquistati. Le occasioni sprecate potrebbero iniziare ad avere un senso, e così il tempo lasciato andare, le scelte che ci apparivano così sbagliate.
Allo stesso modo possiamo capire anche quello che ci sentiamo di fare e di non fare oggi, quello che vogliamo e quello che ancora ci fa troppa paura; e da lì immaginare strade alternative e aprirci, se e come ce la sentiamo, a nuove possibilità.
Perché, se per comprendere la peste del ‘300, come dice Barbero, dobbiamo entrare negli occhi di chi viveva all’epoca, come possiamo pretendere di capire la nostra vita senza dare valore alla nostra storia?

Alessandro Busi
psicologo e psicoterapeuta
a Padova, Mestrino e su Skype

Le precedenti parole riscoperte sono: attesa, quasi, vulnerabilità, come se, relazione, virtuale, anche, compromesso, concretezza, crisi e paura.

La riscoperta delle parole #11: paura

11 novembre 202010 novembre 2020
Questo è un particolare della copertina di Febbre di Jonathan Bazzi. L’illustrazione è di Elisa Seitzinger.

Nelle ultime settimane ho letto il libro dello scrittore Jonathan Bazzi: Febbre.
In Febbre l’autore racconta se stesso in relazione a un centro di gravità, la sua diagnosi di sieropositività, perché notizie come questa sembrano assorbire per intero la biografia di una persona.
Nelle pagine come nella vita, però, ci sono tante storie che si intrecciano, che raccontano l’esistenza in modo più ampio di un solo evento, per quanto rilevante. 
Così scopriamo la sua famiglia, il posto dove è cresciuto, Rozzano, i suoi studi, le sue relazioni… O meglio, scopriamo il suo vissuto di tutto questo, che ci riporta dentro il continuo tentativo di trovare un equilibrio fra gli ostacoli, le opportunità, le sfide del mondo e il desiderio di poter scegliere da sé.
La diagnosi di sieropositività è proprio l’evento che esacerba quella tensione fra scelta e mondo, perché è lì che il peso dell’incontrollabile si fa più denso, fino a essere insopportabile. Jonathan nel libro inizia infatti ad avere sintomi a cui fatica a dare senso, il suo corpo sembra andare fuori fase e assieme a esso il futuro, che perde man mano tasselli di prevedibilità.

“Come potrò vivere sapendo di avercelo nel corpo?” 

Così, più tenta di rassicurare tutti (“Sì, vabbè, ma non ti preoccupare. Oggi non è più come una volta – frase di rito -, basta curarsi”), più prova a evitare la propria paura (“Ma è una comprensione piatta, superficiale. Una patina che non riesce a nascondermi la vista dello strapiombo”), più il terrore prende spazio e divora la possibilità di continuare a immaginare, possibilità che si sgretola in un continuo singhiozzo fra una visita e l’altra, fra un’incertezza e l’altra.

In altri termini, il protagonista sembra vivere non solo la minaccia esterna verso il proprio corpo, ma il timore di essere precipitato dentro un cambiamento così grande che la propria mente sappia concepirne la portata. Come dice:

“Ogni cosa che viene dall’esterno è risolvibile, la si può scansare, attraversare. Ma se è la mente stessa a diventare ostile, dove te ne vai? Cosa affronti, dove ti sposti?”

***

Il futuro difficile da immaginare, la paura della paura stessa, il nostro sistema di significati che sembra aver perso la capacità di guardare oltre l’oggi.
Sono convinto che queste siano alcune delle sensazioni che molti stanno vivendo in questo periodo di pandemia.
C’è chi vi fa fronte negando l’esistenza della pandemia stessa, e così si sente di tornare in potere. C’è chi vi fa fronte seguendo come traccia il terrore, diventando, come si dice, più realista del re, nella speranza che questo dia respiro al desiderio di controllo. E poi ancora c’è chi insegue i dati sempre più numerosi, sempre più precisi, ma per paradosso sempre più caotici; oppure chi si arrabbia nei social media, perché preferisce mostrarsi arrabbiato piuttosto che impaurito.
Ognuno, con i propri eccessi ed errori, sta tentando di trovare un modo personale di stare dentro questa situazione, e spesso anche di evitarne la portata paurosa.

Ma cosa ci spaventa tanto della paura?

Innanzitutto possiamo dire una banalità: la paura fa paura, altrimenti non sarebbe paura. Quindi puliamo il campo da tutte quelle formule tipo “con la paura bisogna…”, perché, se bastasse dirci un “bisogna”, se fosse così facile, non staremmo, appunto, parlando di paura.

Al netto di questo, però: cosa ci spaventa tanto della paura?

Io credo che la paura ci sia così insopportabile per varie ragioni.
Credo che spesso colleghiamo la paura alla debolezza e altrettanto spesso vogliamo evitare di dirci deboli, per questo cerchiamo espressioni pubbliche, ma anche private, che sappiano celare la nostra paura, che si trasforma quindi anche in vergogna.
E attenzione, non parlo di machismo, ma proprio della paura di sentirsi vittime di un caos che fa traballare i puntelli che negli anni abbiamo messo alla nostra casa.
Ma evitando la paura, proprio perché è nostra e non del mondo di fuori, perché gli eventi spaventano ma il modo di vivere la paura ci appartiene, questa non se ne va, piuttosto assume nuove forme: sintomi fisici, terrore, il desiderio sempre più forte e frustrato di controllarla.

Riprendendo il libro di Bazzi, senza raccontare troppo, la situazione si sblocca proprio nel momento in cui il protagonista arriva a guardare in faccia le cose, a inserire la diagnosi, con tutta la sua portata emotiva, dentro la sua vita, rendendola non lo snodo ma uno degli snodi che lo rendono la persona che è oggi. È così che può riprendere a generare compromessi possibili per la sua vita futura. In altri termini, il protagonista si dà la possibilità di mettere le basi a un futuro che senta proprio, in cui paura e malattia ci sono, ma non lo tengono in ostaggio.

Questo è quello che spesso sento che facciamo in psicoterapia: ridare senso a ciò che viviamo e abbiamo vissuto, per quanto doloroso, per quanto indesiderabile, così da costruire nuove strade, nuovi compromessi, nuove relazioni.
E forse per questo, per il periodo che stiamo vivendo, per rimettere assieme biografia ed eventi esterni, potremmo iniziare a ripensare il nostro rapporto con la paura, non più sintomo di debolezza, ma presenza che ci tocca avere con noi per dare corpo al futuro, in un continuo negoziare fra desideri, possibilità e paure.

Alessandro Busi
psicologo e psicoterapeuta
a Padova, Mestrino e su Skype

Le precedenti parole riscoperte sono: attesa, quasi, vulnerabilità, come se, relazione, virtuale, anche, compromesso, concretezza e crisi.

La riscoperta delle parole #10: crisi

5 ottobre 20204 ottobre 2020

Crisi è una parola di uso comune. Quando parliamo di clima, per esempio, come quando parliamo di economia, di sanità o di politica. In tuti questi contesti indica qualcosa che vorremmo evitare. 
Chi potrebbe mai desiderare un’altra crisi sanitaria?

Da alcuni anni, si fa un uso un po’ diverso della parola crisi nel mondo della psicologia divulgativa. Potremmo riassumerlo così: è importante abbracciare la crisi.
L’idea di fondo è che, senza una crisi personale, le persone non sono disposte a cambiare le proprie abitudini, anche quelle che le fanno soffrire, perché noi esseri umani preferiamo una vita dolorosa che conosciamo, rispetto a una potenzialmente più in linea con i nostri desideri, ma che non sappiamo se può esistere per davvero. Quindi dobbiamo essere contenti di essere in crisi.
Perfetto. Eppure mi chiedo: se una crisi è una crisi, ovvero un momento in cui le nostre certezze – magari non tutte ma molte – smettono di funzionare, un momento in cui non ci fidiamo più di noi stessi e quindi abbiamo paura a scegliere anche le cose più piccole, come possiamo pensare anche di doverla accogliere fin da subito, come si suol dire, come una bella opportunità?

Spesso in psicoterapia arrivano persone che vivono momenti di crisi personale, di coppia, familiare; persone che provano paura, vergogna, rabbia; persone che si guardano indietro e si incolpano per ciò che hanno e non hanno fatto, che sentono di voler cambiare, ma temono di intaccare equilibri – seppur dolorosi – faticosamente costruiti in una vita.
Altrettanto spesso queste persone arrivano con un carico in più da sopportare: non sono nemmeno capace di prendere questa crisi come si deve!
Così, al dolore per il vissuto personale, si aggiunge la colpa di non essere abbastanza veloci nel trasformare il dolore in forza, la sofferenza in un’esperienza con cui ci si è già pacificati.

La crisi è perciò un momento in cui ci sentiamo presi dentro un loop dal quale ci sembra impossibile uscire, da cui vorremmo fuggire il più velocemente possibile, ma temiamo che ogni scelta porti con sé implicazioni inaccettabili, allora meglio stare immobili.
Ma si può davvero stare immobili se il tempo immobile non lo è?

Tutto questo si accompagna a emozioni che, talvolta come ondate di mareggiata, talvolta come sotterranei fiumi carsici, entrano nelle nostre giornate e ne lasciano il segno. Il dolore, la paura, la speranza, la delusione; la sensazione che non ci sia niente da fare e l’entusiasmo, di solito effimero, che le fa da contraltare…

E allora ci chiediamo: ma che senso ha?
Sono convinto che parte del lavoro della psicoterapia sia proprio quello di rispondere a questa domanda: dare significato al dolore che viviamo, perché da lì, posizionando quel dolore dentro la nostra vita e riconoscendone il ruolo, possiamo ricostruire la nostra storia, passata e quindi futura.

E sono anche convinto che altrettanto importante sia darci il tempo di stare dentro quella crisi e quelle emozioni, dentro anche al desiderio di scappare da quella crisi, perché sono le nostre emozioni e in quanto tali ci meritiamo di rispettarle.
Sono convinto che, se ci sentiamo in crisi e non viviamo questa crisi come una veloce nuvola di passaggio, allora vuol dire che quella crisi è importante nella nostra vita e merita che ce ne prendiamo cura, prima di vederla come qualcosa da ringraziare per passare oltre.

Alessandro Busi
a Mestrino, Padova e su Skype

Le precedenti parole riscoperte sono: attesa, quasi, vulnerabilità, come se, relazione, virtuale, anche, compromesso e concretezza.

La riscoperta delle parole #9: Concretezza

13 luglio 20209 luglio 2020

Una cosa che mi è capitato di sentirmi dire varie volte è che la psicologia e la psicoterapia non siano concrete.
La medicina è concreta, l’ingegneria di certo, l’ecologia perfino, ma la psicologia e la psicoterapia non possono esserlo perché si occupano di pensieri e di emozioni, di come diamo senso a quello che viviamo e di come possiamo cambiare. 

Questo modo di vedere si tramuta per molti in uno scoglio non da poco, quando sentono che qualcosa non va nelle proprie vite, ma sentono anche di non poter chiedere un aiuto perché: insomma, non è mica un problema concreto!

Allora mi chiedo: se sono concreti il mondo in cui ci troviamo, le case che abitiamo e le auto che guidiamo; se queste case e questo mondo li viviamo con dei corpi concreti anche loro… come è possibile che l’esperienza che facciamo di tutte queste cose non sia concreta?

Non è concreta l’emozione che proviamo quando nasce o quando muore una persona che amiamo? Non è concreto quell’amore? 
Ma pensiamo anche all’odio, al rancore, alla solitudine, alla paura di fallire e al desiderio di rischiare, all’immaginazione dei progetti di vita e all’ostinazione nel portarli avanti e al dolore nel doverli modificare e alla soddisfazione nel ritrovarli cambiati ma comunque nostri.

Ecco perché la parola che voglio riscoprire è concretezza, perché ci meritiamo di utilizzarla in modo più ampio, per esempio chiedendoci: come cambierebbe il mio modo di vivere le emozioni e i pensieri se iniziassi a dirmi che sono concreti?

Sono convinto che, se può essere utile nei momenti di serenità, avrebbe un effetto tanto più forte quando siamo in crisi, perché potremmo quantomeno smettere di incolparci di stare male per qualcosa che è solo nella nostra testa, o di dirci che si tratta solo di emozioni e idee, mentre potremmo iniziare a dirci: ok, sono nella mia testa e proprio perché sono nella mia testa e con la mia testa io do senso a quello che vivo, allora è importante che me ne occupi.

Non solo. Sono anche convinto che vedere concretezza in quello che pensiamo e proviamo, ce ne farebbe sentire maggiormente anche la responsabilità, per cui non potremmo più accantonare, ma ci troveremmo più facilmente a chiederci: come voglio e mi sento di cambiare? In che direzione?

Perché alla fine, se concreta è l’esperienza che viviamo, che è fatta dal mondo che ci circonda, dal corpo che siamo, dalle relazioni che abitiamo, dai punti di vista che assumiamo, dalle emozioni che proviamo, dai desideri che custodiamo, allora concreti diventano anche cambiamenti a cui ci possiamo affacciare.

Alessandro Busi
psicologo e psicoterapeuta
Padova, Mestrino e su Skype

Le precedenti parole riscoperte sono: attesa, quasi, vulnerabilità, come se, relazione, virtuale, anche e compromesso.

Per il nuovo anno, voglio…

2 gennaio 202018 marzo 2020

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Foto di Tirachard Kumtanom 

Il nostro modo di vivere il tempo è quello di scandirlo: ore, giornate, mesi, anni. In questa scansione, ci sono momenti a cui diamo significati particolari. I compleanni, per esempio, che spesso portano con sé momenti di riflessione, scelte e anche crisi: ho 20, 30, 40, 50, 60, 70 anni e la mia vita?

Un momento che per molti è un’occasione per fare il punto è quello del cambio di anno: come è stato l’anno appena concluso?
Cosa voglio per l’anno prossimo?
Con chi voglio l’anno prossimo?

Spesso queste sono anche le domande che le persone portano con sé quando vengono in psicoterapia, perché, di fronte al desiderio di cambiare qualcosa nella propria vita, poi si chiedono: va bene, ma come faccio? Cosa succede se cambio? Come si fa?

Per questo inizio di anno, vi presento oggi un breve Ted talk che si intitola “Prima di morire voglio…” dell’artista americana Candy Chang. Nel video racconta di quando fece un esperimento: scrivere su un muro “prima di morire voglio…” e vedere cosa avrebbero scritto le persone.

Il risultato del suo esperimento potete leggerlo e vederlo qui sotto, ma noi possiamo prendere spunto e chiederci: per questo nuovo anno, voglio…

Alessandro Busi
Padova, Mestrino e su Skype

Prima di morire voglio…

Ci sono molti modi in cui le persone attorno a noi possono migliorare le nostre vite. Non interagiamo con tutti i nostri vicini, e così tanta esperienza non viene trasferita, sebbene condividiamo gli stessi spazi pubblici.

Così gli anni passati ho cercato modi di condividere di più con i miei vicini negli spazi pubblici, usando strumenti semplici come adesivi, stencil e gessetti. Questi progetti partivano dai quesiti che mi ponevo, ad esempio, quanto pagano di affitto i miei vicini? Come possiamo prestare o farci prestare più cose senza bussare alla porta al momento sbagliato? Come possiamo condividere di più i nostri ricordi degli edifici abbandonati, e comprendere al meglio i nostri paesaggi? E come possiamo condividere di più le nostre speranze per i negozi sfitti in modo che le nostre comunità possano rispecchiare oggi le nostre necessità e i nostri sogni?

Ora, io vivo a New Orleans, e sono innamorata di New Orleans. La mia anima è sempre confortata dalle vive querce giganti, che offrono riparo ad amanti, ubriachi e sognatori da centinaia di anni, e mi fido di una città che dà sempre spazio alla musica. Ho l’impressione che appena qualcuno starnutisce, New Orleans fa una parata. La città ha tra le più belle architetture al mondo, ma è anche tra le città degli Stati Uniti con più immobili abbandonati. 

Vivo vicino a questa casa, e ho pensato a come rendere lo spazio più piacevole per i miei vicini, e ho pensato anche a qualcosa che ha cambiato la mia vita per sempre.

Nel 2009, ho perso qualcuno che amavo molto. Si chiamava Joan, per me è stata una madre, e la sua morte è stata improvvisa e inaspettata. Ho pensato molto alla morte, e mi ha fatto sentire una profonda gratitudine per i momenti trascorsi, e ha fatto chiarezza sulle cose che hanno un significato per la mia vita di adesso. Ma faccio fatica a mantenere questa prospettiva nella vita di tutti i giorni. Ho l’impressione che sia facile farsi prendere dalla routine, e dimenticare quello che è davvero importante.

Così con l’aiuto di amici vecchi e nuovi, ho trasformato la facciata di questa casa abbandonata in una gigantesca lavagna e ci ho stampato su una frase da completare negli spazi vuoti: “Prima di morire, voglio…” Così chiunque passava poteva prendere un gessetto, riflettere sulla propria vita, e condividere le proprie aspirazioni personali in uno spazio pubblico.

Non sapevo cosa aspettarmi da questo esperimento, ma il giorno dopo, il muro era pieno di scritte, e hanno continuato ad aumentare. E vorrei condividere alcune cose che le persone hanno scritto su questo muro.

“Prima di morire, voglio essere processato per pirateria.” “Prima di morire, voglio stare a cavalcioni sulla Linea del Cambiamento di Data.” “Prima di morire, voglio cantare per milioni di persone.” “Prima di morire, voglio piantare un albero.” “Prima di morire, voglio vivere senza vincoli.” “Prima di morire, voglio abbracciarla un’ultima volta.” “Prima di morire, voglio correre in aiuto di qualcuno.” “Prima di morire, voglio essere me stesso, completamente.”

Così questo spazio trascurato è diventato uno spazio costruttivo, e le speranze e i sogni delle persone mi hanno fatto ridere fragorosamente, piangere, e mi hanno consolato nei periodi difficili. Si tratta di sapere che non sei solo. Si tratta di capire i tuoi vicini in un modo nuovo e istruttivo. Si tratta di fare spazio alla riflessione e alla contemplazione, e ricordare quello che davvero ci importa di più mentre cresciamo e cambiamo. 

L’ho realizzato l’anno scorso, e ho iniziato a ricevere centinaia di messaggi da appassionati che volevano realizzare un muro all’interno della loro comunità, così insieme ai miei colleghi del centro civico abbiamo creato un kit e ad oggi sono stati trasformati muri nei paesi di tutto il mondo, incluso il Kazakistan, il Sud Africa, l’Australia, l’Argentina e oltre. Insieme, abbiamo mostrato quanto coinvolgente possa essere lo spazio pubblico se ci viene data l’opportunità di dire la nostra e condividere di più gli uni con gli altri.

Due delle cose più preziose che abbiamo sono il tempo e i rapporti interpersonali. In un’epoca in cui aumentano le distrazioni, è diventato sempre più importante trovare il modo di mantenere la giusta prospettiva e ricordare che la vita è breve e fragile. La morte è qualcosa di cui preferiamo non parlare o a cui preferiamo non pensare ma, mi sono resa conto che prepararsi alla morte è una delle cose che ti dà maggiore forza. Pensare alla morte chiarisce la nostra vita. 

Gli spazi condivisi possono rispecchiare al meglio ciò che è importante per noi come individui e come comunità, e con sempre più modi di condividere le nostre speranze, paure e storie, le persone intorno a noi possono aiutarci non solo a rendere migliore i luoghi, ma anche a condurre una vita migliore.

 

Anche i rapper vanno dallo psicologo?

25 novembre 201918 marzo 2020

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fotografia di Kyle Glenn

Un’emozione che molte persone che vorrebbero rivolgersi a uno psicologo, o iniziare un percorso di psicoterapia, dicono di vivere è la vergogna.
Cosa penserebbero gli altri se sapessero che vado dallo psicologo?
E cosa dovrei pensare di me?
Spesso questa vergogna nasce da due idee:
– da un lato una visione di autonomia e forza per la quale le persone riescono a risolversi da sole i propri problemi;
– dall’altro la sensazione per cui gli altri non vivono quello che viviamo noi; la sensazione per la quale le vite degli altri procedano nel modo “giusto” perché loro sono capaci di vivere, mentre noi no.
Questi presupposti, per molti, si rivelano un ostacolo complesso da superare prima di potersi permettere di dire: bene, voglio iniziare una psicoterapia.

Nel mondo della musica, un genere che ha sempre fatto del machismo e della dimostrazione della forza due dei suoi punti cardine, è il rap.
In molte canzoni rap – non in tutte – l’autocelebrazione è un elemento centrale: io sono forte, io ce l’ho fatta, io mi sono costruito con le mie sole mani.
Pur restando questi aspetti, è vero che anche il mondo del rap sta vivendo dei cambiamenti, grazie ai quali, per esempio, ci sono oggi sempre più musicisti che si sentono liberi di dichiarare la propria omosessualità, cosa impensabile già solo quindici anni fa; ci sono più donne che possono spiccare; il panorama di tematiche di cui alcuni scelgono di parlare nelle canzoni è più ampio.
Non è un caso che, sempre in questi ultimi anni, molti rapper importanti stiano scegliendo anche di far cadere la maschera da machi in favore di un racconto di sé più umano, semplicemente, potremmo dire, di ricordarsi che sono persone, e che quindi, come tutte le persone, hanno dei problemi, che come molte persone vanno dallo psicologo.
Questa cortina è stata rotta in primis dal rapper americano Jay-Z, che due anni fa, in una lunga intervista rilasciata al direttore del New York Times, non solo disse che finalmente aveva potuto far cadere i ruoli che doveva indossare all’inizio della carriera – “questo è chi sono”, dice, e poi “la cosa più forte che un uomo può fare è mostrarsi vulnerabile” – ma anche di come andare in psicoterapia individuale e di coppia gli abbia permesso non solo di cambiare, ma anche di ricostruire il suo matrimonio.

Qualche settimana fa è uscita un’intervista a un famoso rapper italiano che parla della propria psicoterapia.
Fabio Bartolo Rizzo, in arte Marracash, ha raccontato con molta onestà la sua psicoterapia, le ragioni per cui ci è andato e il beneficio che ne ha tratto.
Per non dilungarmi, lascio che siano le sue parole, di cui riporto qualche stralcio assieme al video dell’intervista completa, a parlare, perché sono convinto si spieghino da sé.

“Un po’ tutti abbiamo delle cose che non ci fanno stare bene con noi stessi: la differenza è quando sei in grado di tirarle fuori. Ci sono persone che non riescono neanche a parlarne con loro stessi, ma queste cose ci sono comunque e magari le somatizzano in altri modi
[…]
La cosa che funziona è che a un certo punto lui (lo psicologo) ti fa delle domande, o ti fa fare delle domande che non ti sei fatto da solo. Andare da lui è servito a capirmi e ad accettarmi di più.
[…]
Una delle cose più importanti di quest’ultima crisi è che non sapevo più in che cosa credere. Mi sembrava tutto finto: le relazioni, l’amore… non avevo più motivazione per alzarmi al mattino e fare le cose.
[…]
Se penso che andavo dallo psicologo, gli raccontavo che non riuscivo a scrivere, che non sapevo se avrei fatto un altro disco e come mi sentivo qualche mese fa, è incredibile come la mia vita sia ripartita“.

Alessandro Busi
Padova, Mestrino e su Skype

Crisi, benessere e cambiamento: la psicoterapia secondo gli italiani.

6 dicembre 201618 marzo 2020

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Illustrazione di Alessandro “Shout” Gottardo

In questi mesi l’ente previdenziale degli psicologi [ENPAP], l’alter ego dell’Inps per capirci, ha condotto una ricerca dal titolo “Indagine di mercato sulla psicologia professionale in Italia”, una ricerca nella quale ha intervistato 1000 persone rispetto alle loro idee sulla psicologia e il lavoro di psicoterapia.

Oltre ai vari aspetti specifici di possibile cambiamento per la professione, molto utili per gli psicologi, ma che riguardano poco i non addetti ai lavori, due capitoli credo siano una lettura interessante per tutti:

  • come gli italiani percepiscono il proprio benessere ed equilibrio rispetto alla crisi;

  • come gli italiani vedono la figura dello psicoterapeuta.

Italiani, crisi e benessere

Da quello che emerge, crisi [economica e non] significa sentirsi impotenti rispetto alla possibilità di decidere del proprio futuro: “non sentirsi in grado di essere indipendenti”. A questo sentire si affiancano vissuti di insicurezza, legata al non percepirsi in grado di accogliere i vari aspetti di sé, e solitudine, che si configura nel timore di non saper stare con le persone che ci sono accanto.

Se questa è la percezione di ciò che fa soffrire le persone, secondo gli intervistati il benessere corrisponde alla capacità di perseguire obiettivi significativi nella propria vita, essere empatici con gli altri, accettare se stessi e al contempo saper cambiare, saper affrontare le avversità in modo autonomo.

Quello che ne emerge è un quadro nel quale le persone vedono alcuni aspetti della propria vita come l’esatto opposto di quello che auspicano.

Che fare, quindi?

Psicoterapia e benessere

Nello scenario raccontato prima sembra che una figura come lo psicologo-psicoterapeuta diventi centrale nel potersi prendere cura della propria vita, nel non dare per scontato che il proprio modo di vedere ciò che ci succede sia l’unico possibile.

Quello che gli intervistati hanno detto, infatti, è che lo psicologo:

• fa emergere problemi personali latenti;

• offre un supporto specifico al problema emerso;

• aiuta a cambiare punto di vista sul problema;

• indica una nuova strada da perseguire per il proprio equilibrio.

In altre parole è come se per le persone la psicoterapia fosse un percorso che può sì partire da un problema specifico, ma si focalizza sulla possibilità di cambiare sguardo per costruire equilibrio e benessere in maniera più ampia nella propria vita.

Disegnare un nuovo paesaggio

Quale storia emerge da questa indagine?

Quando ho letto i dati e le analisi della ricerca, la prima impressione che mi è balzata agli occhi è stata quella di una storia, di un racconto comune.

Sembra che le persone si sentano spesso inserite in una via sempre più stretta, una via nella quale non sentono di poter seguire il futuro desiderato, una via nella quale le cose procedono al di fuori della loro volontà: come se fossero sempre le circostanze a decidere per noi.

Questo sentire, è facile intuirlo, può portare a sentirsi impotenti e, soprattutto, può portare a sentirsi di non avere alternative, di avere tuttalpiù lo spazio di immaginare possibilità diverse, ma senza sentire di poterci credere.

È proprio in questo spazio così piccolo e doloroso, però, che si può aprire il percorso di psicoterapia.

Nel racconto della ricerca, infatti, sembra che intraprendere questo percorso sia un modo per comprendere meglio se stessi, lavorare su ciò che emerge, non solo in termini di soluzione di un problema, quanto in termini di apertura verso nuove possibilità che questa volta si sentono come percorribili.

In questi termini, quindi, la psicoterapia è oggi per gli italiani, non più un vezzo per pochi, ma un modo concreto per riappropriarsi delle proprie scelte, costruire il proprio benessere e sentirsi capaci di affrontare le sfide della vita.

Alessandro Busi
Mestrino, Padova e su Skype

Crisi esistenziale: una storia per cambiare

28 gennaio 201618 marzo 2020

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Immaginiamoci una scena che a molti di noi è familiare: immaginiamo un pranzo di Natale.

Immaginiamo che a questo pranzo partecipino una decina di persone.

Focalizziamoci su una: Marco*, 19 anni, studente di Lingue Orientali, tornato a casa per le feste.

Durante il pranzo i parenti gli chiedono come stiano andando gli studi e lui, educatamente, sorride e risponde che vanno bene, va tutto bene.

Lui lo sa che non va così bene, che pensava sarebbe stato più semplice, che si aspettava di fare molta meno fatica, ma continua a non dire nulla, sorride e dice che va tutto bene.

Immaginiamo una seconda scena: Marco esce con alcuni ex compagni di classe delle superiori. Alcuni li rivede volentieri, altri meno, alla fine, passano una piacevole serata a parlare dei primi mesi di università. Anche con loro, Marco si svela il meno possibile. Tutto bene è il suo slogan, tutto bene.

Perché Marco non può raccontare che sta facendo fatica con lo studio? Cosa succederebbe se dicesse di aver preso un diciotto nel primo esame e di averlo rifiutato? Di cosa ha paura?

Terza scena: Marco arriva a casa dei genitori e, messa l’auto nel garage, inizia a piangere. Non se lo aspettava nemmeno lui. Vedendo che non sale, arrivano anche i genitori che si allarmano, che succede? Perché piangi? Marco scuote la testa e dice che non è nulla, che va tutto bene, ma non riesce a smettere, è più forte di lui, gli manca il respiro, ma più di tutto, quello che manca a Marco è la risposta alla domanda: chi sono? Se non sono più il bravo studente, quello che vive con i genitori; se devo mentire a parenti e amici per continuare ad essere ammirato, o almeno per essere come loro, chi sono?

E non saper rispondere a questa domanda può far sentire la terra sotto i piedi, può far mancare il respiro.

Cosa può fare allora Marco?

Quello che Marco può fare, da solo e con l’aiuto di uno psicologo, è ridare senso a questo momento di crisi e a se stesso. Scoprire, per esempio, che lui non era solo un bravo studente, ma che era ed è anche altro. Scoprire che può sbagliare, perché è con gli errori che cresce. Scoprire che può cambiare e, da lì, riprendere in mano la propria vita.

Così, magari, al pranzo di Natale dell’anno dopo, Marco sceglierà di raccontare ai genitori le proprie preoccupazioni, con gli amici di riderne e con alcuni parenti di continuare a dire che va tutto bene, perché sceglie liberamente di farlo. 

Alessandro Busi
Mestrino, Padova e su Skype

*I personaggi e le vicende raccontate sono frutto di invenzione dell’autore. Ogni riferimento a fatti realmente accaduti e persone realmente esistenti è puramente casuale.

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3275389290 alessandrobusi.psy@gmail.com

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Via Altinate 128, 35121, Padova

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Alessandro Busi Psicoterapeuta Padova

Alessandro Busi Psicoterapeuta Padova
Dott. Alessandro Busi psicologo-psicoterapeuta

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