In questi mesi mi è successo di ascoltare alcuni podcast dello storico Alessandro Barbero. Il modo che usa per avvicinarci agli eventi storici è quello di focalizzarsi sul senso che aveva per le persone dell’epoca comportarsi in quello specifico modo. È una precisazione che fa spesso: non pretendete di guardare con gli occhi di oggi gli eventi e le persone del passato, se li si volete capire. Perché Cavour spinse tanto per l’Unità d’Italia? Perché i soldati italiani accettarono di combattere a Caporetto? Perché scoppiò la rivoluzione francese? Se vogliamo capirli dobbiamo provare a metterci nei desideri di Cavour, nelle aspettative dei soldati sul fronte della Grande Guerra, nella visione del mondo e della società che c’era in Francia alla fine del ‘700.
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Una sensazione che molte persone raccontano in psicoterapia è questa: la paura di aver sprecato il proprio tempo, di non aver scelto quello che volevano ma, talvolta quello che dovevano, talvolta quello che la vita faceva capitare loro sotto i piedi. Questa sensazione porta con sé un rosario di altre sensazioni che vanno dall’incolparsi, al sentire il peso del tempo che passa, al pensare di aver sbagliato, o peggio ancora di avere qualcosa di intrinsecamente sbagliato: perché tutti gli altri sono capaci di vivere e io no? Questa visione apre purtroppo a uno scenario difficile da scardinare, perché è lo scenario nel quale sentiamo di non avere la possibilità di incidere in prima persona in quello che sembra essere un destino già scritto.
Un’altra sensazione ricorrente in terapia è però anche lo stupore; lo stupore di prendersi del tempo per chiedersi: ma io, questa vita, come l’ho costruita? Lo stupore, a volte piacevole e a volte doloroso, di guardare al proprio tempo, alle emozioni provate, ai bivi di fronte ai quali ci si è trovati, e ridare senso alle scelte fatte, che magari non erano quelle più desiderate, ma di certo erano quelle più sensate in quel momento. In questo modo, infatti, possiamo scoprire che non abbiamo vissuto la vita dei sogni, ma quella che, dentro tutte le asperità che ci sono toccate, ci siamo conquistati. Le occasioni sprecate potrebbero iniziare ad avere un senso, e così il tempo lasciato andare, le scelte che ci apparivano così sbagliate. Allo stesso modo possiamo capire anche quello che ci sentiamo di fare e di non fare oggi, quello che vogliamo e quello che ancora ci fa troppa paura; e da lì immaginare strade alternative e aprirci, se e come ce la sentiamo, a nuove possibilità. Perché, se per comprendere la peste del ‘300, come dice Barbero, dobbiamo entrare negli occhi di chi viveva all’epoca, come possiamo pretendere di capire la nostra vita senza dare valore alla nostra storia?
Questo è un particolare della copertina di Febbre di Jonathan Bazzi. L’illustrazione è di Elisa Seitzinger.
Nelle ultime settimane ho letto il libro dello scrittore Jonathan Bazzi: Febbre. In Febbre l’autore racconta se stesso in relazione a un centro di gravità, la sua diagnosi di sieropositività, perché notizie come questa sembrano assorbire per intero la biografia di una persona. Nelle pagine come nella vita, però, ci sono tante storie che si intrecciano, che raccontano l’esistenza in modo più ampio di un solo evento, per quanto rilevante. Così scopriamo la sua famiglia, il posto dove è cresciuto, Rozzano, i suoi studi, le sue relazioni… O meglio, scopriamo il suo vissuto di tutto questo, che ci riporta dentro il continuo tentativo di trovare un equilibrio fra gli ostacoli, le opportunità, le sfide del mondo e il desiderio di poter scegliere da sé. La diagnosi di sieropositività è proprio l’evento che esacerba quella tensione fra scelta e mondo, perché è lì che il peso dell’incontrollabile si fa più denso, fino a essere insopportabile. Jonathan nel libro inizia infatti ad avere sintomi a cui fatica a dare senso, il suo corpo sembra andare fuori fase e assieme a esso il futuro, che perde man mano tasselli di prevedibilità.
“Come potrò vivere sapendo di avercelo nel corpo?”
Così, più tenta di rassicurare tutti (“Sì, vabbè, ma non ti preoccupare. Oggi non è più come una volta – frase di rito -, basta curarsi”), più prova a evitare la propria paura (“Ma è una comprensione piatta, superficiale. Una patina che non riesce a nascondermi la vista dello strapiombo”), più il terrore prende spazio e divora la possibilità di continuare a immaginare, possibilità che si sgretola in un continuo singhiozzo fra una visita e l’altra, fra un’incertezza e l’altra.
In altri termini, il protagonista sembra vivere non solo la minaccia esterna verso il proprio corpo, ma il timore di essere precipitato dentro un cambiamento così grande che la propria mente sappia concepirne la portata. Come dice:
“Ogni cosa che viene dall’esterno è risolvibile, la si può scansare, attraversare. Ma se è la mente stessa a diventare ostile, dove te ne vai? Cosa affronti, dove ti sposti?”
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Il futuro difficile da immaginare, la paura della paura stessa, il nostro sistema di significati che sembra aver perso la capacità di guardare oltre l’oggi. Sono convinto che queste siano alcune delle sensazioni che molti stanno vivendo in questo periodo di pandemia. C’è chi vi fa fronte negando l’esistenza della pandemia stessa, e così si sente di tornare in potere. C’è chi vi fa fronte seguendo come traccia il terrore, diventando, come si dice, più realista del re, nella speranza che questo dia respiro al desiderio di controllo. E poi ancora c’è chi insegue i dati sempre più numerosi, sempre più precisi, ma per paradosso sempre più caotici; oppure chi si arrabbia nei social media, perché preferisce mostrarsi arrabbiato piuttosto che impaurito. Ognuno, con i propri eccessi ed errori, sta tentando di trovare un modo personale di stare dentro questa situazione, e spesso anche di evitarne la portata paurosa.
Ma cosa ci spaventa tanto della paura?
Innanzitutto possiamo dire una banalità: la paura fa paura, altrimenti non sarebbe paura. Quindi puliamo il campo da tutte quelle formule tipo “con la paura bisogna…”, perché, se bastasse dirci un “bisogna”, se fosse così facile, non staremmo, appunto, parlando di paura.
Al netto di questo, però: cosa ci spaventa tanto della paura?
Io credo che la paura ci sia così insopportabile per varie ragioni. Credo che spesso colleghiamo la paura alla debolezza e altrettanto spesso vogliamo evitare di dirci deboli, per questo cerchiamo espressioni pubbliche, ma anche private, che sappiano celare la nostra paura, che si trasforma quindi anche in vergogna. E attenzione, non parlo di machismo, ma proprio della paura di sentirsi vittime di un caos che fa traballare i puntelli che negli anni abbiamo messo alla nostra casa. Ma evitando la paura, proprio perché è nostra e non del mondo di fuori, perché gli eventi spaventano ma il modo di vivere la paura ci appartiene, questa non se ne va, piuttosto assume nuove forme: sintomi fisici, terrore, il desiderio sempre più forte e frustrato di controllarla.
Riprendendo il libro di Bazzi, senza raccontare troppo, la situazione si sblocca proprio nel momento in cui il protagonista arriva a guardare in faccia le cose, a inserire la diagnosi, con tutta la sua portata emotiva, dentro la sua vita, rendendola non lo snodo ma uno degli snodi che lo rendono la persona che è oggi. È così che può riprendere a generare compromessi possibili per la sua vita futura. In altri termini, il protagonista si dà la possibilità di mettere le basi a un futuro che senta proprio, in cui paura e malattia ci sono, ma non lo tengono in ostaggio.
Questo è quello che spesso sento che facciamo in psicoterapia: ridare senso a ciò che viviamo e abbiamo vissuto, per quanto doloroso, per quanto indesiderabile, così da costruire nuove strade, nuovi compromessi, nuove relazioni. E forse per questo, per il periodo che stiamo vivendo, per rimettere assieme biografia ed eventi esterni, potremmo iniziare a ripensare il nostro rapporto con la paura, non più sintomo di debolezza, ma presenza che ci tocca avere con noi per dare corpo al futuro, in un continuo negoziare fra desideri, possibilità e paure.
Il nostro modo di vivere il tempo è quello di scandirlo: ore, giornate, mesi, anni. In questa scansione, ci sono momenti a cui diamo significati particolari. I compleanni, per esempio, che spesso portano con sé momenti di riflessione, scelte e anche crisi: ho 20, 30, 40, 50, 60, 70 anni e la mia vita?
Un momento che per molti è un’occasione per fare il punto è quello del cambio di anno: come è stato l’anno appena concluso? Cosa voglio per l’anno prossimo? Con chi voglio l’anno prossimo?
Spesso queste sono anche le domande che le persone portano con sé quando vengono in psicoterapia, perché, di fronte al desiderio di cambiare qualcosa nella propria vita, poi si chiedono: va bene, ma come faccio? Cosa succede se cambio? Come si fa?
Per questo inizio di anno, vi presento oggi un breve Ted talk che si intitola “Prima di morire voglio…” dell’artista americana Candy Chang. Nel video racconta di quando fece un esperimento: scrivere su un muro “prima di morire voglio…” e vedere cosa avrebbero scritto le persone.
Il risultato del suo esperimento potete leggerlo e vederlo qui sotto, ma noi possiamo prendere spunto e chiederci: per questo nuovo anno, voglio…
Ci sono molti modi in cui le persone attorno a noi possono migliorare le nostre vite. Non interagiamo con tutti i nostri vicini, e così tanta esperienza non viene trasferita, sebbene condividiamo gli stessi spazi pubblici.
Così gli anni passati ho cercato modi di condividere di più con i miei vicini negli spazi pubblici, usando strumenti semplici come adesivi, stencil e gessetti. Questi progetti partivano dai quesiti che mi ponevo, ad esempio, quanto pagano di affitto i miei vicini? Come possiamo prestare o farci prestare più cose senza bussare alla porta al momento sbagliato? Come possiamo condividere di più i nostri ricordi degli edifici abbandonati, e comprendere al meglio i nostri paesaggi? E come possiamo condividere di più le nostre speranze per i negozi sfitti in modo che le nostre comunità possano rispecchiare oggi le nostre necessità e i nostri sogni?
Ora, io vivo a New Orleans, e sono innamorata di New Orleans. La mia anima è sempre confortata dalle vive querce giganti, che offrono riparo ad amanti, ubriachi e sognatori da centinaia di anni, e mi fido di una città che dà sempre spazio alla musica. Ho l’impressione che appena qualcuno starnutisce, New Orleans fa una parata. La città ha tra le più belle architetture al mondo, ma è anche tra le città degli Stati Uniti con più immobili abbandonati.
Vivo vicino a questa casa, e ho pensato a come rendere lo spazio più piacevole per i miei vicini, e ho pensato anche a qualcosa che ha cambiato la mia vita per sempre.
Nel 2009, ho perso qualcuno che amavo molto. Si chiamava Joan, per me è stata una madre, e la sua morte è stata improvvisa e inaspettata. Ho pensato molto alla morte, e mi ha fatto sentire una profonda gratitudine per i momenti trascorsi, e ha fatto chiarezza sulle cose che hanno un significato per la mia vita di adesso. Ma faccio fatica a mantenere questa prospettiva nella vita di tutti i giorni. Ho l’impressione che sia facile farsi prendere dalla routine, e dimenticare quello che è davvero importante.
Così con l’aiuto di amici vecchi e nuovi, ho trasformato la facciata di questa casa abbandonata in una gigantesca lavagna e ci ho stampato su una frase da completare negli spazi vuoti: “Prima di morire, voglio…” Così chiunque passava poteva prendere un gessetto, riflettere sulla propria vita, e condividere le proprie aspirazioni personali in uno spazio pubblico.
Non sapevo cosa aspettarmi da questo esperimento, ma il giorno dopo, il muro era pieno di scritte, e hanno continuato ad aumentare. E vorrei condividere alcune cose che le persone hanno scritto su questo muro.
“Prima di morire, voglio essere processato per pirateria.” “Prima di morire, voglio stare a cavalcioni sulla Linea del Cambiamento di Data.” “Prima di morire, voglio cantare per milioni di persone.” “Prima di morire, voglio piantare un albero.” “Prima di morire, voglio vivere senza vincoli.” “Prima di morire, voglio abbracciarla un’ultima volta.” “Prima di morire, voglio correre in aiuto di qualcuno.” “Prima di morire, voglio essere me stesso, completamente.”
Così questo spazio trascurato è diventato uno spazio costruttivo, e le speranze e i sogni delle persone mi hanno fatto ridere fragorosamente, piangere, e mi hanno consolato nei periodi difficili. Si tratta di sapere che non sei solo. Si tratta di capire i tuoi vicini in un modo nuovo e istruttivo. Si tratta di fare spazio alla riflessione e alla contemplazione, e ricordare quello che davvero ci importa di più mentre cresciamo e cambiamo.
L’ho realizzato l’anno scorso, e ho iniziato a ricevere centinaia di messaggi da appassionati che volevano realizzare un muro all’interno della loro comunità, così insieme ai miei colleghi del centro civico abbiamo creato un kit e ad oggi sono stati trasformati muri nei paesi di tutto il mondo, incluso il Kazakistan, il Sud Africa, l’Australia, l’Argentina e oltre. Insieme, abbiamo mostrato quanto coinvolgente possa essere lo spazio pubblico se ci viene data l’opportunità di dire la nostra e condividere di più gli uni con gli altri.
Due delle cose più preziose che abbiamo sono il tempo e i rapporti interpersonali. In un’epoca in cui aumentano le distrazioni, è diventato sempre più importante trovare il modo di mantenere la giusta prospettiva e ricordare che la vita è breve e fragile. La morte è qualcosa di cui preferiamo non parlare o a cui preferiamo non pensare ma, mi sono resa conto che prepararsi alla morte è una delle cose che ti dà maggiore forza. Pensare alla morte chiarisce la nostra vita.
Gli spazi condivisi possono rispecchiare al meglio ciò che è importante per noi come individui e come comunità, e con sempre più modi di condividere le nostre speranze, paure e storie, le persone intorno a noi possono aiutarci non solo a rendere migliore i luoghi, ma anche a condurre una vita migliore.
Una vecchia massima latina diceva che, se si vuole avere la pace, bisogna prepararsi alla guerra: si vis pacem, para bellum.
Questa massima fu ripresa da Sigmund Freud, che la trasformò in chiave psicoanalitica: si vis vitam, para mortem – se vuoi la vita, pensa che nel tuo futuro ci sarà la morte.
Negli ultimi mesi, ho letto un libro di Irvin Yalom, famoso psicoterapeuta e romanziere americano, che in Fissando il sole affronta un tema che non solo accomuna, ma si presume contraddistingua proprio gli esseri umani dagli altri animali: la paura della morte.
Come l’autore suggerisce nel titolo, il pensiero della nostra morte è qualcosa come fissare il sole, qualcosa che ci fa male, ma che comunque ci succede di fare.
Proprio perché è strettamente legato alla vita, la paura della morte è un tema di cui si parla in psicoterapia e che apre le porte a uno sguardo sulla vita e su come la viviamo.
Oggi voglio provare a parlarne prendendo uno stralcio dal libro di Yalom. Nelle righe che seguono, leggerete il confronto fra una donna e il suo psicoterapeuta e i ragionamenti che ne emergono spero possano essere spunti utili per molti.
*«mi permetta di rivolgerle una domanda forse banale. Perché la morte è così terrificante? Che cosa in particolare la spaventa della morte?»
Rispose istantaneamente: «Tutte le cose che non ho fatto».
«Vale a dire?»
«Devo proprio raccontarle la mia storia di artista. Io, per prima cosa, sono stata un’artista. Tutti quanti, tutti i miei insegnanti, mi dicevano che avevo un grande talento. Però, anche se nel corso della giovinezza e dell’adolescenza ho ricevuto riconoscimenti considerevoli in tal senso, quando ho deciso di dedicarmi alla psicologia ho messo l’artista da parte». Poi si corresse: «No, non è del tutto vero. Non l’ho messa completamente da parte. Comincio spesso un disegno o un dipinto, ma non li porto mai a termine. Inizio qualcosa e poi lo ficco in un cassetto della scrivania, che assieme all’armadietto nel mio studio è piena zeppa di lavori incompiuti».
«Perché? Se ama dipingere e comincia dei progetti, che cosa le impedisce di portarli a termine?»
«I soldi. Ho molto da fare e svolgo pratica terapeutica a tempo pieno».
«Quanti soldi guadagna? Di quanto ha bisogno?»
«Be’, la maggior parte della gente direbbe che guadagno un bel po’. Incontro i pazienti per almeno quaranta ore alla settimana, spesso di più. Ma ci sono le rette esorbitanti delle scuole private di due bambini».
«E suo marito? Mi ha detto che anche lui è un terapeuta. Lavora altrettanto sodo e guadagna quanto lei?»
«Ha lo stesso numero di pazienti, a volte di più, e guadagna anche di più: molte delle sue ore sono impiegate in test neuropsichici, che sono economicamente più vantaggiosi».
«Quindi sembra che tra lei e suo marito abbiate più soldi di quanti ve ne servono. Tuttavia lei mi dice che i soldi le impediscono di perseguire la sua arte?»
«Be’, si tratta dei soldi, ma in un senso strano. Vede, io e mio marito siamo stati sempre in competizione per chi dei due guadagnava di più. Non è una cosa riconosciuta apertamente, non è una competizione esplicita, ma io so che è lì, che esiste sempre».
«Allora lasci che le faccia una domanda. Supponiamo che una paziente venga nel suo studio e le dica di avere un grande talento e ardere dal desiderio di esprimersi dal punto di vista creativo, ma che non può farlo perché è in competizione con il marito per guadagnare più soldi, soldi dei quali non ha bisogno. Che cosa le direbbe?»
Posso ancora sentire la risposta immediata di Julia, con il suo stretto accento britannico: «Le direi: Sta vivendo una vita assurda!»
Da quel momento il lavoro di Julia in terapia consistette nel trovare un modo di vivere meno assurdo. Esplorammo la competitività nella sua relazione coniugale e anche il significato dei disegni abbozzati nella scrivania e negli armadietti. Prendemmo in considerazione la possibilità, per esempio, che l’idea di un destino alternativo stesse agendo per controbilanciare in qualche modo la linea retta che s’allungava tra la nascita e la morte. O c’era forse un vantaggio per lei nel non finire i suoi lavori e, quindi, nel non mettere alla prova i limiti del proprio talento? Forse voleva perpetuare la convinzione che avrebbe potuto fare grandi cose, se solo lo avesse desiderato. Forse c’era qualcosa di attraente nell’idea che, se avesse voluto, sarebbe potuta diventare una grande artista. Forse nessuna delle sue opere riusciva a raggiungere il livello che lei pretendeva da se stessa. Julia si trovò particolarmente in consonanza con quest’ultimo pensiero. Era eternamente insoddisfatta di sé e si appellava a un motto che aveva imparato a memoria all’età di otto anni, dopo averlo visto scritto su una lavagna a scuola: Buono migliore il meglio Non fermarti mai finché Il buono è migliore E il migliore è il meglio di te.
La storia di Julia è un altro esempio del modo in cui l’angoscia della morte può manifestarsi in forma occulta. Julia si presentò per la terapia con una gamma di sintomi che erano un travestimento quasi trasparente dell’angoscia della morte.
[…]
Julia aveva cominciato a confrontarsi direttamente con ciò che le impediva di vivere in modo soddisfacente la propria vita.
«Di cosa precisamente ha paura riguardo alla morte?» È una domanda che pongo spesso ai miei pazienti, perché provoca una varietà di risposte che spesso accelerano l’andamento della terapia. La risposta di Julia: «Tutte le cose che non ho fatto» mette in rilievo un tema di grande importanza per molti che riflettono sulla morte o devono affrontarla: la sicura correlazione tra la paura della morte e la percezione di una vita non vissuta. In altre parole, più la vita viene percepita come non vissuta, più grande è l’angoscia della morte. Più non si riesce a sperimentare la vita con pienezza, più si avrà paura di morire.
* questo stralcio è preso da pagina 45 di Fissando il sole di I. Yalom, edito da Neri Pozza.
Illustrazione di Guido Scarabottolo per l’iniziativa “Corriconme” di Amnesty international
Il rientro dalle ferie porta con sé un’abitudine su cui spesso ironizziamo: i buoni propositi.
Andrò in palestra; mi iscriverò al corso di pittura, scrittura, fotografia, chitarra…; mangerò meglio, andrò a correre; lavorerò meno, lavorerò di più; uscirò di più, uscirò di meno; userò meno lo smartphone, leggerò di più; dedicherò più tempo a… Anche io mi sono promesso di far uscire un post al mese nel blog: lo farò? Ci riuscirò? Chissà.
A prescindere dal contenuto, che riguarda le passioni e gli interessi e i progetti che ognuno di noi ha, questi propositi ci dicono una cosa che desideriamo: dare una direzione alla nostra vita.
Una cosa che spesso mi succede nella stanza della terapia è di incontrare persone che raccontano di non sapere più dove sta andando la propria esistenza, e quindi di avere la sensazione di non riconoscersi più.
Che fine hanno fatto i miei progetti? Si tramuta facilmente in: che fine ho fatto io?
E sia chiaro che ci hanno provato a riacciuffare il tempo – mi sono detto, ok, fai questo, ma poi le cose mi sovrastavano. E adesso? Come faccio? – ma più questi tentativi falliscono, più sentono che non c’è speranza.
Ecco che allora i propositi diventano qualcosa di molto serio, su cui è certo bene scherzare ma non per questo sono da sminuire, perché racchiudono in sé la speranza di sentirsi padroni del proprio tempo.
Ma dare una direzione alla vita che viviamo significa controllarla? Possiamo essere padroni del nostro tempo? Possiamo veramente averne il controllo?
Un’altra cosa che spesso emerge in psicoterapia è che, se da un lato non ci sta bene lasciare che le cose succedano, d’altro canto la ricerca del controllo è fonte di frustrazione e poco altro.
Ma allora? Che si può fare?
Come dicevo, in terapia spesso questa è una parte del lavoro, ovvero quella di costruire la strada che la persona si sente di sperimentare, e che sia diversa dalle due espresse precedentemente. Una strada fatta di parole nuove, che raccontino una storia nella quale non saremo né vittime del destino, né controllori degli eventi, ma parte in gioco, narratori attivi della nostra vita.
Allora, se di racconto si tratta, anche i propositi hanno un nuovo senso: si trasformano da prove a tentativi, sfide che noi, come protagonisti del nostro romanzo, possiamo affrontare e fallire, perché questo fallimento, non solo ci parla di noi, ma diventa uno snodo, che apre almeno a una nuova domanda:
Immagine del progetto Humans of New York di Brandon Stanton. Qui l’originale e qui sulla pagina Facebook
Humans of New York è un progetto artistico di Brandon Stanton. L’idea è semplice, ma la realizzazione è assai più complessa: immortalare una persona e raccoglierne uno scampolo di storia. Credo che la capacità di Stanton sia quella di dare valore ai frammenti che le persone vogliono condividere con lui, con il coraggio di mettersi di fronte e dentro ai loro dolori come alle loro gioie.
“Io e mia madre siamo sempre state molto unite, ma dopo la morte di mio padre dovemmo re-imparare a comunicare. Intraprendemmo una terapia. Avevamo smesso di essere oneste l’una con l’altra. La malattia di mio padre era stata così difficile che non volevamo creare ulteriori preoccupazioni: provavamo a proteggerci a vicenda. Non avremmo mai ammesso di avere una brutta giornata, o di sentirci depresse. La risposta era sempre: Sto bene. Ma non stavamo bene, ed era ovvio. Ci preoccupavamo l’una per l’altra, in continuazione, e ciò causò molti stress e litigi. Dovevamo re-imparare a dirci quando avevamo una brutta giornata, perché non puoi mai sapere se veramente una persona sta bene, finché non gli permetti di raccontarti quando sta male”.
Queste parole sono al contempo intime e comuni.
Quanto spesso capita di evitare di dire qualcosa che ci affligge a una persona a cui vogliamo bene, nella speranza di proteggerla dalle nostre preoccupazioni?
L’intento è nobile, si potrebbe dire, ma il risultato è spesso diverso da quello che auspicavamo.
Il risultato è spesso contribuire a creare preoccupazioni ancora più grandi, aiutate da un’atmosfera del tipo non parliamone, che ingigantisce ciò che vorremmo non ci fosse.
Come mai?
In questa abitudine, succede che noi smettiamo di chiederci Come mi sento a tenere le mie preoccupazioni solo per me?, smettiamo di chiederci Come si sente la persona che ho accanto se smetto di raccontarmi con lei/lui?, e ancora Cosa succede nella nostra relazione se non abbiamo più la libertà di raccontarci? Di raccontare anche ciò che ci fa soffrire?. Diamo per scontato come l’altro si sentirà e come noi ci sentiremo, il tutto nel tentativo di proteggere e proteggerci da qualcosa di doloroso.
Come può essere utile una psicoterapia?
La psicoterapia è anche questo: avere uno spazio in cui sperimentare cosa succede se raccontiamo a qualcuno ciò che ci affligge.
Se ne andrà? Mi vorrà correggere? Mi sgriderà?
Queste sono alcune delle domande che le persone si pongono prima di un esperimento simile. Invece, ciò che spesso succede è che si scopre che l’altra persona rimane, che il nostro dolore non è solo dicibile, ma anche esplorabile, a volte perfino con qualche sorriso.
Ciò che succede è che si scopre che il nostro dolore possiamo provare a condividerlo anche con chi ci sta più vicino, che le loro spalle e le nostre sono più larghe di quanto ci aspettassimo, che assieme possiamo portare pesi reciproci, in una strada meno perfetta di quanto sognavamo, ma molto più vivibile.