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Alessandro Busi Psicoterapeuta Padova

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Tag: compromesso

Quando il gatto non c’è?

29 luglio 202229 luglio 2022Lascia un commento

Qualche giorno fa mi sono imbattuto in una vignetta di Christopher Weyant. Un topo dice all’altro, Odio ammetterlo ma, ora che il gatto è fuori, non so cosa fare con il mio tempo libero.
Il richiamo di Weyant è chiaramente al famoso detto dei topi che ballerebbero in assenza del gatto, ma sembra chiedere: siamo sicuri che succeda proprio così?
Non strappa il sorriso solo per il gioco con il modo di dire, ne richiama uno più amaro perché quella domanda sembra rivolgersi direttamente al lettore: quando il tuo gatto non c’è, cosa fai?
Potremmo riformularla domanda così: quando quello che consideri il tuo gatto sarà fuori, cosa farai?

La vignetta di Weyant apparsa nel numero del 25/7/22 del New Yorker

Se ci pensiamo, è un’esperienza comune quella di dirci che quando una data situazione smetterà di esserci, allora potremo iniziare a fare quello che desideriamo.
Quando sarò in ferie, farò.
Quando avrò abbastanza soldi, farò.
Quando mi sposerò, quando compirò trenta/quaranta/sessant’anni, quando avrò un figlio, quando avrò il lavoro xy… solo allora potrò.
È un’esperienza comune sentire di essere dentro dei vincoli percepiti come troppo stretti, così stretti da impedire ogni movimento nel presente, se non nella possibilità di fantasticare. Fantasticare serve a immaginare il possibile che sarà possibile, serve a pianificare, o anche solo a dare corpo mentale a dei desideri che rimarranno tali; di certo permette di spostare dentro un futuro inaccessibile alcune cose che vorremmo e che al contempo ci spaventano, non per nostra volontà, ma – per stare nella vignetta – per la presenza del gatto.

Questo funziona fino a che succede qualcosa.
Alle volte è Il gatto che se ne va (es. le ferie iniziano, i soldi ci sono, il matrimonio avviene), altre volte arriva uno scossone nella vita – una pandemia, un compleanno… ognuno ha le proprie pietre miliari – che trasformano il modo di vivere il tempo, per cui quello spostamento nel futuro, da rassicurante diventa insostenibile.
Le ragioni per cui rimandavamo ci sembrano meno significative.
La prospettiva del domani toglie il respiro perché è diventata fattibile e perciò irraggiungibile.
D’altro canto, anche l’idea di scegliere quella cosa rimandata per tanto tempo è a sua volta insostenibile, perché, se la rimandavamo, avevamo – più e meno consapevolmente – delle ragioni: magari ci spaventano i cambiamenti che potrebbe implicare, quelli che potrebbe portare nelle relazioni che viviamo, come si sconvolgerebbe la nostra vita.
Quindi, quando il gatto non c’è, possiamo trovarci dentro esperienze di ansia, dentro l’insofferenza per la ripetizione di comportamenti che non ci piacciono e che non troviamo più ragionevoli, possiamo chiuderci, sentendo di non avere alternative da percorrere.

Ma allora basta agire!
Questa è la reazione che viene più facile pensare.
Se non ti piace come vivi, cambia!
Spesso troviamo online pagine che ci danno ingiunzioni di questo tipo. Liberati delle persone che non ti piacciono! Fai solo quello che desideri! Non procrastinare! Non rimandare! e via dicendo.
Non entro nella bontà in sé delle idee, metto una domanda: se fosse così facile, non lo faremmo già?
Se il topo della vignetta avesse facilità a scegliere di ballare o fare quello che desidera o capire quello che desidera, non parlerebbe con l’amico con quell’espressione allarmata più che preoccupata, banalmente: agirebbe.
Allo stesso modo ognuno di noi – più e meno consapevolmente – percorre la strada che trova più percorribile per sé, che non vuol dire sia sempre quella che desidera, o che aveva sognato, ma quella nella quale sente di poter camminare in quel momento della sua vita, a partire dal suo modo di vedere il mondo, le relazioni, se stesso.

Illustrazione di Gordon Johnson

Spesso succede che in psicoterapia arrivino persone che si sentono strette dentro questa morsa: da un lato, una vita così tanto spesa ad aspettare che il gatto uscisse da non sapersi pensare in modo diverso da “persona che aspetta che il gatto se ne vada”; dall’altro, sentirsi colpevole di non riuscire a seguire i buoni consigli ricevuti e i desideri che sente propri: è vero, sarebbe così semplice, perché non ci riesco?
E questa morsa si alimenta con il tempo che passa, che giorno dopo giorno dà vigore alle sensazioni di incapacità e di mancanza di alternative che dicevamo prima.
Per questa ragione, il lavoro in terapia può servire come spazio per capire cosa sta succedendo, dare rilevanza ai propri paure-speranze-desideri-rabbie…, recuperare il senso più ampio possibile che ha per noi stare in una situazione anche se fa soffrire e aver costruito i compromessi della nostra vita, ricostruire il gatto e la sua ossatura per dare significato al legame che abbiamo vissuto con lui negli anni, comprendere cosa immaginiamo per noi e per le relazioni che amiamo quando pensiamo di fare cose diverse; e da lì, se e quando sarà possibile, con i tempi che ognuno sente per sé percorribili, prendere in mano queste scelte e chiederci: ok, il gatto ha fatto parte della mia vita, ha avuto un ruolo significativo, anche con la sua presenza ho scritto questa storia. Ora che non c’è più, cosa mi sento di fare?

Alessandro Busi
Psicologo e psicoterapeuta
a Padova, Mestrino e online

La riscoperta delle parole #12: Storia

14 marzo 202112 marzo 2021

In questi mesi mi è successo di ascoltare alcuni podcast dello storico Alessandro Barbero.
Il modo che usa per avvicinarci agli eventi storici è quello di focalizzarsi sul senso che aveva per le persone dell’epoca comportarsi in quello specifico modo. È una precisazione che fa spesso: non pretendete di guardare con gli occhi di oggi gli eventi e le persone del passato, se li si volete capire.
Perché Cavour spinse tanto per l’Unità d’Italia? Perché i soldati italiani accettarono di combattere a Caporetto? Perché scoppiò la rivoluzione francese?
Se vogliamo capirli dobbiamo provare a metterci nei desideri di Cavour, nelle aspettative dei soldati sul fronte della Grande Guerra, nella visione del mondo e della società che c’era in Francia alla fine del ‘700.

***

Una sensazione che molte persone raccontano in psicoterapia è questa: la paura di aver sprecato il proprio tempo, di non aver scelto quello che volevano ma, talvolta quello che dovevano, talvolta quello che la vita faceva capitare loro sotto i piedi.
Questa sensazione porta con sé un rosario di altre sensazioni che vanno dall’incolparsi, al sentire il peso del tempo che passa, al pensare di aver sbagliato, o peggio ancora di avere qualcosa di intrinsecamente sbagliato: perché tutti gli altri sono capaci di vivere e io no?
Questa visione apre purtroppo a uno scenario difficile da scardinare, perché è lo scenario nel quale sentiamo di non avere la possibilità di incidere in prima persona in quello che sembra essere un destino già scritto.

Un’altra sensazione ricorrente in terapia è però anche lo stupore; lo stupore di prendersi del tempo per chiedersi: ma io, questa vita, come l’ho costruita?
Lo stupore, a volte piacevole e a volte doloroso, di guardare al proprio tempo, alle emozioni provate, ai bivi di fronte ai quali ci si è trovati, e ridare senso alle scelte fatte, che magari non erano quelle più desiderate, ma di certo erano quelle più sensate in quel momento.
In questo modo, infatti, possiamo scoprire che non abbiamo vissuto la vita dei sogni, ma quella che, dentro tutte le asperità che ci sono toccate, ci siamo conquistati. Le occasioni sprecate potrebbero iniziare ad avere un senso, e così il tempo lasciato andare, le scelte che ci apparivano così sbagliate.
Allo stesso modo possiamo capire anche quello che ci sentiamo di fare e di non fare oggi, quello che vogliamo e quello che ancora ci fa troppa paura; e da lì immaginare strade alternative e aprirci, se e come ce la sentiamo, a nuove possibilità.
Perché, se per comprendere la peste del ‘300, come dice Barbero, dobbiamo entrare negli occhi di chi viveva all’epoca, come possiamo pretendere di capire la nostra vita senza dare valore alla nostra storia?

Alessandro Busi
psicologo e psicoterapeuta
a Padova, Mestrino e su Skype

Le precedenti parole riscoperte sono: attesa, quasi, vulnerabilità, come se, relazione, virtuale, anche, compromesso, concretezza, crisi e paura.

Verso la fine dell’anno. Che anno?

15 dicembre 202013 dicembre 2020
Particolare della copertina del calendario 2020 di Guido Scarabottolo

È dicembre inoltrato e ci stiamo quindi muovendo verso la fine del 2020.
“Per fortuna!”, aggiungeranno molti.
È comprensibile, perché – dico una banalità – il 2020 ha messo a soqquadro le nostre vite. Chi, a gennaio, avrebbe potuto immaginare quello che sarebbe successo da lì a pochi giorni?
Se qualcuno ci avesse detto: non vi abbraccerete, non vi darete la mano, girerete sempre con indosso una mascherina, gli avremmo fatto i complimenti per la fantasia e gli avremmo consigliato di scriverci un bel libro di fantascienza, ma chi gli avrebbe creduto?
E invece eccoci qui, a sfruttare più che possiamo quella che molti etologi sostengono essere la migliore qualità dell’essere umano: la capacità di cambiare le proprie abitudini, per adattarsi all’ambiente che lo circonda.
Cambiare abitudini, però, dovrebbe essere un processo graduale, perché le abitudini, se le abbiamo costruite negli anni, vuol dire che per noi avevano un senso, quindi, modificarle implica modificare anche il nostro modo di vedere e stare al mondo.
Con la gradualità è possibile (e sottolineo possibile) che ci percepiamo attori protagonisti di questo processo, per cui sentiamo che anche le nuove abitudini hanno senso; altrimenti, è più probabile che viviamo questi cambiamenti come una strozzatura della nostra libertà di scelta, che si assoggetta a un mondo esterno che non avevamo mai sentito così opprimente.
Che sia questa la pandemic fatigue (fatica da pandemia) di cui tanto si parla? Non lo so. Di certo, non stiamo parlando di un’etichetta astratta, ma di cose molto concrete: pensieri, preoccupazioni, difficoltà a prevedere il futuro che abbiamo davanti; ansia, dolore, paura; modi di stare assieme, modi di stare in famiglia, in coppia, con gli amici; l’importanza del lavoro e degli hobby, le uscite del sabato, il nostro rapporto con la tecnologia, il nostro rapporto con i soldi… e potrei proseguire così a lungo da annoiarci.

Sono convinto che parte della difficoltà a stare dentro questo periodo – accanto al nostro esserci scoperti vulnerabili – nasca dal rapporto con la libertà e con le relazioni.
Il cambiamento più grande dentro il quale ci troviamo, infatti, è proprio la necessità di considerare che non siamo liberi al cento per cento, ma ogni nostra scelta, azione, è frutto di compromesso. Ma prima della pandemia, non era già così? Io credo di sì, solo che, nel mondo per come eravamo abituati a conoscerlo prima di marzo 2020, tutto rientrava nella normalità delle cose.
Quante volte, più o meno consapevolmente, ci siamo per esempio chiesti: “preferisco comportarmi in questo modo che desidero, avendo la sensazione di deludere chi mi vuole bene, oppure in quest’altro, deludendo il mio desiderio, ma sperando di fare contente le persone che amo? E chi mi sento di essere se scelgo una strada invece che l’altra?“
Ognuno di noi ha costruito la propria vita per esperimenti e aggiustamenti, per compromessi, e i compromessi possono essere tanto meno dolorosi, quanto più sentiamo che per noi hanno senso. Il che non significa che siamo sempre andati nella direzione che desideravamo, no, ma che, anche quando ci siamo rassegnati, siamo stati noi a rassegnarci e quella rassegnazione ci ha visti attori protagonisti.
Non credo che fare ciò sia facile, anzi, e spesso la psicoterapia è anche questo spazio, lo spazio nel quale ricostruire il senso delle scelte fatte, delle emozioni vissute, sperate ed evitate, per sentire che la nostra vita ha un respiro ampio e per poterci chiedere: pur all’interno dei vincoli della mia vita, che direzione mi sento di prendere da qui?

Dicevamo che il 2020 sta volgendo al termine.
Per molti la chiusura di un anno è un momento nel quale fare il punto. Fare il punto di un anno così, però, è difficile, quindi potrebbe essere forte la tentazione di chiudere gli occhi e sperare che il 2020 finisca e porti via con sé tutto.
Purtroppo, e lo sappiamo tanto bene quanto lo speriamo, non andrà così. I nuovi vincoli che il mondo attorno ci pone li troveremo a gennaio e nei mesi a venire. Cambieranno, cambieremo, ma non scompariranno, quindi dovremo ancora farci i conti, proprio come abbiamo fatto fino a ora.
Un’alternativa che abbiamo per poterci aprire a un 2021 nel quale sentirci un po’ più capaci di surfare sopra questo mare mosso, provando a non farci sommergere dal caos o a dare un senso al nostro eventuale sommergerci, potrebbe essere quella di riguardare al 2020 e chiederci: dentro a tutto questo, cosa ho fatto? E quando ce lo chiediamo, fare uno sforzo per andare a fondo. Così, per esempio: sì, facevo il pane, ma mentre facevo il pane, cosa facevo?
Potremmo scoprire che, mentre facevamo il pane, ci stavamo coccolando, speravamo fosse un modo per prenderci cura delle persone a cui vogliamo bene, ci stavamo sforzando a costruire una routine nuova che ricostruisse una prevedibilità nelle giornate senza le uscite di casa, e chissà cos’altro.
In questo modo non scomparirà l’impatto emotivo, anche doloroso, di questo periodo, ma sono convinto che, più aspetti ci sentiamo di esplorare in questo modo, più possiamo scoprire che anche questo 2020 lo abbiamo vissuto, non nel modo che speravamo a gennaio, ma comunque dando la nostra impronta, anche la nostra impronta. Quindi possiamo chiederci: che impronta ho dato a questo 2020?

Alessandro Busi
psicoterapeuta a Padova, Mestrino e su Skype

La riscoperta delle parole #8: Compromesso

23 giugno 202022 giugno 20201 commento

Guardando i documentari molti restano abbagliati dalla natura: la perfezione dei collegamenti neuronali, delle articolazioni del ghepardo, dell’esca luminescente del melanoceto…
Non è incredibile che tutto si incastri così bene? Sì, ma è perfetto?
L’idea di Telmo Pievani, autore di Imperfezione. Una storia naturale, è che la natura non sia perfetta, ma sia espressione di uno dei percorsi possibili, frutto di continui aggiustamenti, ridefinizioni, errori, messe in discussione e rifondazioni. Per questo, la metafora che lui propone è quella della natura come artigiano, che non insegue la perfezione, ma fa quello che può, con i materiali e le capacità che ha.
Prendiamo la giraffa. Non è affascinante? Certo, ma è perfetta?

“Nella giraffa il nervo laringeo ricorrente, che è cruciale essendo coinvolto nella deglutizione e nelle vocalizzazioni, anziché andare direttamente dal cervello alla laringe come qualsiasi ingegnere lo disegnerebbe, fa un percorso lunghissimo. Sfiora la laringe (la sua meta) ma non si ferma, scende lungo tutto il collo seguendo il nervo vago, passa sotto l’aorta dorsale vicino al cuore e risale di nuovo lungo tutto il collo fino alla laringe dopo aver percorso quasi quattro metri! Non ha alcun senso. È un maldestro compromesso tra il più recente allungamento del collo per selezione naturale e il più antico retaggio della conformazione del nervo vago dei pesci.”

[T. Pievani “Imperfezione. Una storia naturale”, Raffaello Cortina editore]

Ecco quindi la parola che voglio riscoprire oggi: compromesso.

Nonostante il compromesso caratterizzi la storia dell’evoluzione – piena di sfide e di coraggio nell’affrontarle; piena di organi creati, abbandonati e poi riutilizzati; piena di prove ed errori – è una parola a cui abbiamo dato una connotazione negativa: non per niente diciamo scendere a compromessi, mica salire a compromessi.
Non per niente, i compromessi a cui siamo giunti nelle nostre vite, portano per molti con sé dolore, rimpianto, rassegnazione; tutte emozioni che possono aprire alla sensazione di avere di fronte a sé un futuro già scritto e immodificabile.

Spesso è qui che si innesta la scelta di iniziare una psicoterapia: nel desiderio di riprendere in mano le cose, di ricominciare, o cominciare a scrivere una storia che sentiamo appartenerci.
Spesso è qui che ci troviamo a lavorare: nella ricerca di senso di quello che c’è stato, di quello che c’è e nella costruzione di nuove strade possibili.

In qualche misura, quello che paziente e terapeuta si trovano a fare è ridare valore a tutti i compromessi che il paziente ha saputo costruire nella propria vita, talvolta accettando di più, talvolta rendendosi più propositivo, ma comunque facendo quello che sentiva di poter fare (come la natura secondo Pievani).

Immaginando quindi che la giraffa di prima inizi una psicoterapia; immaginando che soffra, si vergogni dell’imperfezione del suo nervo laringeo, della lunghezza del suo collo e quindi del suo corpo; immaginando che questo la faccia sentire vittima di un destino beffardo; nel lavoro assieme al suo terapeuta potrebbe ricostruire la storia di quel suo collo, riscrivere tutte le cose che ha saputo fare grazie a lui, nonostante lui e a prescindere da lui, e da lì potrebbe quindi chiedersi: ok, il mio collo me lo tengo, ma da qui, cosa posso e voglio fare di nuovo?

Alessandro Busi
psicologo e psicoterapeuta
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