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Alessandro Busi Psicoterapeuta Padova

Ogni vita merita un romanzo

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Tag: vita

Viktor Frankl, Uno psicologo nei lager

27 gennaio 202127 gennaio 2021

C’è questo libro molto famoso nel mondo della psicologia, che si intitola Uno psicologo nei lager e fu scritto da Viktor Frankl.

Viktor Frankl venne deportato con il numero 119.104. Era il 1942. Da Vienna avrebbe potuto andarsene un anno prima, avendo ricevuto il visto per l’espatrio, ma scelse di restare per continuare, in qualità di direttore del padiglione delle suicide dell’ospedale psichiatrico Am Steinhof, la resistenza al programma nazista di eliminazione dei pazienti psichiatrici.
Nei tre anni da deportato, Frankl finì in 4 diversi campi di concentramento – Theresienstadt, Auschwitz, Kaufering III e Turkheim – e si ammalò di tifo. Sopravvisse. Quando concluse la sua prigionia, scoprì di essere rimasto sostanzialmente senza famiglia, ognuno dei cui membri era stato ucciso. In campi diversi da quelli in cui era stato lui furono uccisi la moglie con cui si era sposato un anno prima di essere deportato, il fratello e i genitori.

Che senso aveva continuare a vivere?

Questa è la domanda che percorre le pagine del suo Uno psicologo nei lager, un libro che, se nella prima parte esplora come si possa desiderare di sopravvivere perfino dentro una situazione disumana come un campo di concentramento, nella seconda va incontro alla condizione del sopravvissuto, di chi deve ricostruire le ragioni che lo tengono in vita.

Secondo Frankl quello che lo tenne in vita, quello che ci tiene in vita, non è la felicità, ma sentire che quello che facciamo ha senso. È lì che le contraddizioni che siamo possono avere spazio, che le nostre scelte, azioni, rinunce diventano comprensibili in quanto imbevute della nostra biografia, che si tinge a sua volta di un nuovo valore, un valore per cui sentiamo che merita di essere vissuta.

Quelle che ho scelto di riportare di seguito sono le ultime due pagine del libro, che credo riescano a condensare il pensiero dell’autore e di questo testo, scritto di getto, in nove giorni, a nemmeno un anno dalla liberazione.

Tutti lo sapevano, nel lager, e lo dicevamo tra noi: non esiste gioia sulla terra che possa risanare ciò che stiamo soffrendo. Per noi la felicità non contava più. Ciò che ci teneva in piedi e che poteva dare un significato alla nostra sofferenza, al nostro sacrificio, alla nostra morte, non era la felicità. Eppure, all’infelicità non eravamo preparati. La delusione che il destino aveva deciso per noi non pochi ex internati, nella nuova libertà, è un’esperienza che questi uomini hanno superato solo a fatica e dalla quale non li si può distaccare facilmente.
[…]
In un modo o nell’altro viene il giorno in cui ogni ex internato, ripensando all’esperienza del lager, prova una strana sensazione. Egli stesso non comprende come abbia potuto superare tutto ciò che la vita del lager ha preteso da lui. E se vi fu nella sua vita un giorno – il giorno della liberazione – nel quale tutto gli apparve come un bel sogno, certamente arriva anche il giorno in cui tutto ciò che ha vissuto nel lager gli appare come un brutto sogno. Quest’esperienza dell’uomo tornato a casa sarà coronata dalla splendida sensazione che, dopo quanto ha sofferto, non deve temere nulla al mondo – tranne il suo Dio.

[V. Frankl, Uno psicologo nei lager, Edizioni Ares: Milano, pp. 151-152]

Alessandro Busi
psicologo e psicoterapeuta
a Padova, Mestrino e online

Ps: per chi volesse approfondire, consiglio questo articolo apparso a marzo su The Vision: Quando uno psicoterapeuta elaborò un libro sul senso della vita in una campo di concentramento.

La riscoperta delle parole #11: paura

11 novembre 202010 novembre 2020
Questo è un particolare della copertina di Febbre di Jonathan Bazzi. L’illustrazione è di Elisa Seitzinger.

Nelle ultime settimane ho letto il libro dello scrittore Jonathan Bazzi: Febbre.
In Febbre l’autore racconta se stesso in relazione a un centro di gravità, la sua diagnosi di sieropositività, perché notizie come questa sembrano assorbire per intero la biografia di una persona.
Nelle pagine come nella vita, però, ci sono tante storie che si intrecciano, che raccontano l’esistenza in modo più ampio di un solo evento, per quanto rilevante. 
Così scopriamo la sua famiglia, il posto dove è cresciuto, Rozzano, i suoi studi, le sue relazioni… O meglio, scopriamo il suo vissuto di tutto questo, che ci riporta dentro il continuo tentativo di trovare un equilibrio fra gli ostacoli, le opportunità, le sfide del mondo e il desiderio di poter scegliere da sé.
La diagnosi di sieropositività è proprio l’evento che esacerba quella tensione fra scelta e mondo, perché è lì che il peso dell’incontrollabile si fa più denso, fino a essere insopportabile. Jonathan nel libro inizia infatti ad avere sintomi a cui fatica a dare senso, il suo corpo sembra andare fuori fase e assieme a esso il futuro, che perde man mano tasselli di prevedibilità.

“Come potrò vivere sapendo di avercelo nel corpo?” 

Così, più tenta di rassicurare tutti (“Sì, vabbè, ma non ti preoccupare. Oggi non è più come una volta – frase di rito -, basta curarsi”), più prova a evitare la propria paura (“Ma è una comprensione piatta, superficiale. Una patina che non riesce a nascondermi la vista dello strapiombo”), più il terrore prende spazio e divora la possibilità di continuare a immaginare, possibilità che si sgretola in un continuo singhiozzo fra una visita e l’altra, fra un’incertezza e l’altra.

In altri termini, il protagonista sembra vivere non solo la minaccia esterna verso il proprio corpo, ma il timore di essere precipitato dentro un cambiamento così grande che la propria mente sappia concepirne la portata. Come dice:

“Ogni cosa che viene dall’esterno è risolvibile, la si può scansare, attraversare. Ma se è la mente stessa a diventare ostile, dove te ne vai? Cosa affronti, dove ti sposti?”

***

Il futuro difficile da immaginare, la paura della paura stessa, il nostro sistema di significati che sembra aver perso la capacità di guardare oltre l’oggi.
Sono convinto che queste siano alcune delle sensazioni che molti stanno vivendo in questo periodo di pandemia.
C’è chi vi fa fronte negando l’esistenza della pandemia stessa, e così si sente di tornare in potere. C’è chi vi fa fronte seguendo come traccia il terrore, diventando, come si dice, più realista del re, nella speranza che questo dia respiro al desiderio di controllo. E poi ancora c’è chi insegue i dati sempre più numerosi, sempre più precisi, ma per paradosso sempre più caotici; oppure chi si arrabbia nei social media, perché preferisce mostrarsi arrabbiato piuttosto che impaurito.
Ognuno, con i propri eccessi ed errori, sta tentando di trovare un modo personale di stare dentro questa situazione, e spesso anche di evitarne la portata paurosa.

Ma cosa ci spaventa tanto della paura?

Innanzitutto possiamo dire una banalità: la paura fa paura, altrimenti non sarebbe paura. Quindi puliamo il campo da tutte quelle formule tipo “con la paura bisogna…”, perché, se bastasse dirci un “bisogna”, se fosse così facile, non staremmo, appunto, parlando di paura.

Al netto di questo, però: cosa ci spaventa tanto della paura?

Io credo che la paura ci sia così insopportabile per varie ragioni.
Credo che spesso colleghiamo la paura alla debolezza e altrettanto spesso vogliamo evitare di dirci deboli, per questo cerchiamo espressioni pubbliche, ma anche private, che sappiano celare la nostra paura, che si trasforma quindi anche in vergogna.
E attenzione, non parlo di machismo, ma proprio della paura di sentirsi vittime di un caos che fa traballare i puntelli che negli anni abbiamo messo alla nostra casa.
Ma evitando la paura, proprio perché è nostra e non del mondo di fuori, perché gli eventi spaventano ma il modo di vivere la paura ci appartiene, questa non se ne va, piuttosto assume nuove forme: sintomi fisici, terrore, il desiderio sempre più forte e frustrato di controllarla.

Riprendendo il libro di Bazzi, senza raccontare troppo, la situazione si sblocca proprio nel momento in cui il protagonista arriva a guardare in faccia le cose, a inserire la diagnosi, con tutta la sua portata emotiva, dentro la sua vita, rendendola non lo snodo ma uno degli snodi che lo rendono la persona che è oggi. È così che può riprendere a generare compromessi possibili per la sua vita futura. In altri termini, il protagonista si dà la possibilità di mettere le basi a un futuro che senta proprio, in cui paura e malattia ci sono, ma non lo tengono in ostaggio.

Questo è quello che spesso sento che facciamo in psicoterapia: ridare senso a ciò che viviamo e abbiamo vissuto, per quanto doloroso, per quanto indesiderabile, così da costruire nuove strade, nuovi compromessi, nuove relazioni.
E forse per questo, per il periodo che stiamo vivendo, per rimettere assieme biografia ed eventi esterni, potremmo iniziare a ripensare il nostro rapporto con la paura, non più sintomo di debolezza, ma presenza che ci tocca avere con noi per dare corpo al futuro, in un continuo negoziare fra desideri, possibilità e paure.

Alessandro Busi
psicologo e psicoterapeuta
a Padova, Mestrino e su Skype

Le precedenti parole riscoperte sono: attesa, quasi, vulnerabilità, come se, relazione, virtuale, anche, compromesso, concretezza e crisi.

La riscoperta delle parole #6: virtuale

6 Maggio 20202 commenti

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A febbraio uscì una notizia che mi colpì molto. Ve la riassumo, ma lascio anche il link a un articolo più completo. La storia è questa.
Un vigile urbano di 44 anni di un piccolo paese lombardo parcheggiò impropriamente la propria auto in un parcheggio per disabili. Il presidente di un’associazione per disabili la fotografò e denunciò attraverso i propri canali social il comportamento scorretto. A quel punto, il vigile fu inondato di offese, minacce e auguri di morte, che continuarono anche quando pagò la multa e quando fece una donazione all’associazione accompagnata a una lettera di scuse per l’errore commesso. Ma la cosa ormai era sfuggita di mano.
Quello che immagino è che, per quest’uomo, la vergogna fosse diventata troppo grande da sopportare, così, il 3 febbraio, decise di togliersi la vita.
La storia potrebbe finire qui, invece nei giorni successivi fu il presidente dell’associazione a diventare bersaglio di offese, minacce, auguri di morte.

Potremmo chiederci tante cose per capire una tragedia simile: perché denunciamo i comportamenti scorretti attraverso i social, cosa ci aspettiamo che accada? Come funziona la dimensione di branco, quando il territorio è quello telematico?
Potremmo interrogarci sulla vita dentro la quale queste offese cadevano. Alcuni articoli hanno sottolineato che il vigile viveva già una situazione di sofferenza. Certo, dico io, ma questo non ci assolve, anzi, ci ricorda che ogni volta che commentiamo, offendendo o elogiando, non stiamo scrivendo parole che cadono nel vuoto, ma stiamo intervenendo nella vita di qualcun altro, una vita già fatta di felicità, dolori, paure, speranze…
A prescindere dal punto di vista che scegliamo di adottare, è innegabile che le esperienze virtuali generino dentro di noi emozioni che sono reali tanto quanto le emozioni legate alle esperienze offline.

In queste settimane, tutti, anche i più restii, ci siamo trovati di fronte alla necessità di ampliare la nostra vita telematica: per lavorare, per poter incontrare parenti e amici, per poter allargare le mura di casa. Qualcuno ha accolto questa novità, qualcuno l’ha rifiutata, molti l’hanno accettata con momenti alterni di piacere e fastidio. Non credo ci sia un modo giusto e uno sbagliato di viverla, ma quello che è certo è che tutti abbiamo provato, rispetto al nostro essere online, emozioni che non possiamo sminuire, perché sono emozioni che riguardano le nostre relazioni, il nostro mondo e la possibilità di immaginarci nuovi.

Lo stesso è successo anche in psicoterapia. L’aumento – parlo di aumento perché io ho sempre fatto anche terapia online – dei colloqui via Skype ha permesso di scoprire differenze personali dentro un cambio di setting così forte (chi lo preferisce? Per chi è difficile? Come mai?), ha permesso modi nuovi di stare assieme (es. Come mi sento a chiedere la privacy ai miei familiari?), emozioni potenti – positive e negative che siano – che non ci saremmo aspettati (es. Come mi sento a raccontarmi in terapia, ma dentro le mura di casa?). In altri termini, questi nuovi vincoli ci hanno obbligato a esplorare strade che magari non avremmo percorso e quindi ad averle, ora e nel futuro, come alternative in più.

Per questo, la parola che voglio riscoprire oggi è virtuale, perché possiamo provare a smettere di considerarla come un realtà meno reale, ma come una via possibile: possiamo rifiutarla, accettarla, oppure decidere in che modo percorrerla; possiamo chiederci come ci stiamo, cosa ci concediamo, cosa evitiamo e cosa potremmo fare di diverso; possiamo chiederci che ricadute ha nella nostra vita, nelle nostre relazioni; possiamo immaginare le ricadute di ciò che facciamo nelle vite di chi incontriamo online; ma non possiamo prescindere dal pensare che fa parte della storia che scriviamo, oggi.

Alessandro Busi
psicoterapeuta a Padova, Mestrino e su Skype

Le precedenti parole riscoperte sono: attesa, quasi, vulnerabilità, come se, relazione.

La riscoperta delle parole #4: Come se (di Chiara Centomo)

15 aprile 202015 aprile 20204 commenti

Proseguiamo con La riscoperta delle parole** e anche con gli ospiti. Oggi la parola, o meglio, le parole ce le propone la collega psicologa e psicoterapeuta Chiara Centomo*.
Con lei esploreremo il linguaggio, il ruolo dei modi di parlare nella nostra vita e in particolare, vedremo l’importanza di due parole minuscole ma così grandi: come se.

The_Human_Condition_1935

“La condizione umana” di R. Magritte (1935)

Sin da bambini ci è stato insegnato che esistono due tipi fondamentali di linguaggio, uno letterale e uno metaforico, e che entrambi possono esprimere lo stesso contenuto: Romeo può dichiararsi a Giulietta sia affermando di essere innamorato di lei, sia che le piace da impazzire. La differenza starebbe nel fatto che la modalità letterale (prerogativa della scienza, di un parlare esatto) permette di essere precisi e oggettivi, mentre la metafora sarebbe materia prima di artisti, poeti e sognatori.

Se esaminiamo più a fondo il nostro linguaggio, tuttavia, scopriamo che il parlare quotidiano è zeppo di espressioni e immagini metaforiche utilizzate per consuetudine come se fossero letterali. Pensiamo ad esempio al tempo che si afferra, si usa, si spreca o è lungo, pesante, lento. Le idee maturano, l’amore si conquista, certi pensieri sono difficili da sradicare, le persone possono essere elastiche o rigide e quando sono felici si sentono al settimo cielo, mentre se sono tristi hanno l’umore sotto terra.

È molto probabile che queste espressioni, insieme alle centinaia individuate da Lakoff e Johnson nel loro bellissimo libro “Metaphors we live by”1, non vengano immediatamente ricondotte al “come se” che implicitamente contengono (il tempo come se fosse un oggetto, l’innamoramento come se fosse un assedio, le persone come se fossero dei materiali con certe proprietà fisiche, ecc.). Esse, anzi, appaiono come modi appropriati e veri – letterali, appunto – di comunicare.

Si dice spesso che il modo in cui parliamo contribuisce attivamente a costruire la realtà che viviamo. Può sembrare un’affermazione astratta, fino a quando non consideriamo le metafore. Per esempio, quando pensiamo o parliamo del tempo come se fosse denaro (“in questo rapporto ho investito gli anni più belli della mia vita”, “mi ha rubato minuti preziosi”, “un’intera giornata è andata in fumo“, ecc.) tendiamo a strutturalo, percepirlo e viverlo esattamente in questi termini, ovvero come qualcosa che può essere speso, investito più o meno saggiamente, dissipato, sottratto.

L’analogia viene resa letterale nella nostra esperienza, tanto che in alcune situazioni anche non direttamente legate a una produttività economica ci sentiamo realmente derubati del nostro tempo e ne pretendiamo il risarcimento, o veniamo assaliti dalla frustrazione e dal rimpianto quando abbiamo la sensazione di averlo sprecato.

Utilizzando un’altra metafora potremmo mettere in luce sfumature diverse del modo in cui è possibile vivere il tempo? Decisamente sì. Pensiamo ad esempio a come ci sentiamo quando ci immergiamo in alcuni tipi di meditazione2, dove spesso si invita a fare esperienza del tempo come qualcosa che scorre: come se fosse una corrente che non si può fermare o gestire a proprio piacimento, ma da cui lasciarsi trasportare quietamente imparando, al limite, a governare le proprie vele nel momento presente.

I “come se” che scegliamo per parlare non solo del tempo ma di ciò che più ci sta a cuore diventano parte della nostra esperienza: scegliamoli con cura, perché davvero come dicono Lakoff e Johnosn noi viviamo attraverso le metafore.

Come parliamo, ad esempio, dell’amore? Come se fosse una guerra (“l’ho conquistata“), un oggetto personale (“è mio“), un viaggio (“siamo a un bivio“), un lavoro (“ci vuole impegno“) o magari un sacrificio (lo amo da morire“)?
Quali sono le implicazioni di ognuna di queste immagini? Quali possibilità aprono, e cosa invece non ci permettono di esplorare dell’esperienza dell’amore?
Cosa cambierebbe se, parlando di un problema di coppia, provassimo a utilizzare un altro “come se”?

1 Il libro, pubblicato nel 1980, è disponibile in italiano con il titolo “Metafora e vita quotidiana”.

2 Ad esempio la Mindfulness. pratica di consapevolezza sviluppata a partire dalla filosofia buddista (scevra dalla sua componente religiosa).

*Chiara Centomo, psicologa e psicoterapeuta. Accompagno adulti, adolescenti e coppie in percorsi di psicoterapia, di consulenza e di miglioramento personale; mi occupo inoltre di formazione, orientamento e divulgazione scientifica. I miei interessi di ricerca sono principalmente il rapporto corpo-mente e il linguaggio.
Contatti: chiaracentomo@gmail.com
Sito: http://www.chiaracentomo.com
Pagina Facebook: Chiara Centomo Psicologa Psicoterapeuta

**Le precedenti parole sono state: attesa, quasi, vulnerabilità.

 

Il segreto di un matrimonio felice è sapere come litigare

10 febbraio 202018 marzo 2020

Due anni fa lessi questo articolo del New York Times e pensai che sarebbe stato bello tradurlo per il blog. Vai a capire perché, non l’ho mai fatto, fino a oggi.

In questo breve pezzo la psicoterapeuta californiana Daphne De Marneffe entra nelle dinamiche di coppia e in quello che per molti è un tabù: una coppia felice può litigare?

Nei miei colloqui di psicoterapia lo spazio per il litigio, anche per la rabbia, nelle relazioni è una tematica che torna spesso, quindi vi propongo alcuni stralci dell’articolo perché credo dia una prospettiva interessante.

Alessandro Busi
Padova, Mestrino e su Skype

Jing wei

Immagine di Jing Wei presa dall’articolo originale del New York Times

Il segreto di un matrimonio felice è sapere come litigare

Quando le coppie passano da sussurrarsi cose dolci ai preparativi del matrimonio, le loro teste sono occupate da scadenze, cose da fare, incombenze. La loro attenzione sarà catturata dal Grande Giorno, non da cosa succede dopo.

E perché no? Le coppie comprensibilmente vogliono assaporare la loro gioia elettrizzante. Il sociologo Andrew Cherlin sostiene che il matrimonio sia passato da svolta a fondamento della vita adulta. Quindi, sono meno un passo per la coppia e più uno spettacolo del proprio “sono arrivato”.

Questo “matrimonio fondamenta” ci spiega perché questa decisione porti con sé una grande quantità di stress e intensità, e perché poi ci si aspetti che anche le routine familiari seguano lo stesso schema perfetto. Non è così […]. Spesso vedo coppie il cui congelato matrimonio di 17 anni inizia a sciogliersi quando riescono a dirsi cose difficili, ma che devono essere condivise.

I fidanzati devono pianificare il matrimonio. Ma mentre pensano al grande giorno, dovrebbero anche pensare a come affronteranno i loro disaccordi. Abbiamo costruito l’amore e il matrimonio in un modo così ideale che le persone sono spaventate di pensare quanto può essere complesso.

Prendiamo l’esempio dei soldi, una fonte di tensione nel matrimonio, da sempre. Tre quarti delle coppie pagano più di quello che volevano per il giorno del matrimonio. […] Ma le decisioni legate ai soldi non smettono mai di essere sfidanti. Sento molte coppie discutere perché uno dei due sente che l’altro è un ostacolo, invece di notare che è la vita stessa a presentare ostacoli. Le scelte economiche devono essere prese tenendo presente le idee dell’atro, che spesso saranno in disaccordo con le proprie. Per questo molti decidono di non parlarne apertamente, e covano in silenzio.

Una volta, in un ristorante, sentii una giovane donna annunciare al suo partner che aveva deciso di lasciare il lavoro per occuparsi del matrimonio. Ci fu un silenzio straziante. Qualcosa doveva essere detto – perché non me ne hai parlato prima?. Invece, lui rimase in silenzio.

Le persone che lavorano in terapia con le coppie, spesso parlano del bisogno di costruire una “storia di coppia”, ma, se le coppie iniziano a collaborare, devono anche prevedere come avere conversazioni utili, e le conversazione, a differenza dei monologhi, possono essere molto dure.

Nella nostra cultura avversa al conflitto, spesso non prendiamo queste capacità di litigare come parte dell’amore. Ho visto però che i matrimoni migliori coinvolgono persone che fronteggiano emozioni negative […]: non rinnegano la rabbia, ma nemmeno la vivono con soddisfazione; affrontano le cose in modo forte senza smettere di prestare ascolto; chiedono scusa se fanno qualcosa di male.

Quello che conta in un matrimonio è ciò che rendiamo possibile oltre al rossore iniziale: conversazioni che siano profonde, intime e sincere. Non ci incontriamo attraverso una comprensione mistica: ci innamoriamo con la passione, poi realizziamo l’amore attraverso continue conversazioni.

Con quelle discussioni coltiviamo l’attitudine emotiva essenziale del matrimonio: io posso capire ciò che pensi e senti, senza che ciò mi privi della mia esperienza. La tua realtà non cancella la mia.

Tutto questo può sembrare noioso o di poco conto nella lista delle cose da fare, ma nella vita di coppia le emozioni chiedono tempo.
L’artista Georgia O’Keefee disse: “nessuno vede un fiore – veramente – è troppo piccolo e richiede tempo – non abbiamo tempo – ma vedere richiede tempo, come avere un amico richiede tempo”. Quello che molti cercano in un matrimonio è avere un amico intimo. La chiave per un amore duraturo è prendersi il tempo di capire e decidere cosa fare.

Il giorno del matrimonio è una celebrazione di un giorno, ma la vita di matrimonio è una processo senza finale scritto di incomprensioni da sciogliere. Quindi auguro a tutti i nuovi fidanzati una grande gioia. Ma auguro anche che, fra catering e inviti, si prendano una paura per pensare come litigano e come vogliono parlare.

Anche i rapper vanno dallo psicologo?

25 novembre 201918 marzo 2020

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fotografia di Kyle Glenn

Un’emozione che molte persone che vorrebbero rivolgersi a uno psicologo, o iniziare un percorso di psicoterapia, dicono di vivere è la vergogna.
Cosa penserebbero gli altri se sapessero che vado dallo psicologo?
E cosa dovrei pensare di me?
Spesso questa vergogna nasce da due idee:
– da un lato una visione di autonomia e forza per la quale le persone riescono a risolversi da sole i propri problemi;
– dall’altro la sensazione per cui gli altri non vivono quello che viviamo noi; la sensazione per la quale le vite degli altri procedano nel modo “giusto” perché loro sono capaci di vivere, mentre noi no.
Questi presupposti, per molti, si rivelano un ostacolo complesso da superare prima di potersi permettere di dire: bene, voglio iniziare una psicoterapia.

Nel mondo della musica, un genere che ha sempre fatto del machismo e della dimostrazione della forza due dei suoi punti cardine, è il rap.
In molte canzoni rap – non in tutte – l’autocelebrazione è un elemento centrale: io sono forte, io ce l’ho fatta, io mi sono costruito con le mie sole mani.
Pur restando questi aspetti, è vero che anche il mondo del rap sta vivendo dei cambiamenti, grazie ai quali, per esempio, ci sono oggi sempre più musicisti che si sentono liberi di dichiarare la propria omosessualità, cosa impensabile già solo quindici anni fa; ci sono più donne che possono spiccare; il panorama di tematiche di cui alcuni scelgono di parlare nelle canzoni è più ampio.
Non è un caso che, sempre in questi ultimi anni, molti rapper importanti stiano scegliendo anche di far cadere la maschera da machi in favore di un racconto di sé più umano, semplicemente, potremmo dire, di ricordarsi che sono persone, e che quindi, come tutte le persone, hanno dei problemi, che come molte persone vanno dallo psicologo.
Questa cortina è stata rotta in primis dal rapper americano Jay-Z, che due anni fa, in una lunga intervista rilasciata al direttore del New York Times, non solo disse che finalmente aveva potuto far cadere i ruoli che doveva indossare all’inizio della carriera – “questo è chi sono”, dice, e poi “la cosa più forte che un uomo può fare è mostrarsi vulnerabile” – ma anche di come andare in psicoterapia individuale e di coppia gli abbia permesso non solo di cambiare, ma anche di ricostruire il suo matrimonio.

Qualche settimana fa è uscita un’intervista a un famoso rapper italiano che parla della propria psicoterapia.
Fabio Bartolo Rizzo, in arte Marracash, ha raccontato con molta onestà la sua psicoterapia, le ragioni per cui ci è andato e il beneficio che ne ha tratto.
Per non dilungarmi, lascio che siano le sue parole, di cui riporto qualche stralcio assieme al video dell’intervista completa, a parlare, perché sono convinto si spieghino da sé.

“Un po’ tutti abbiamo delle cose che non ci fanno stare bene con noi stessi: la differenza è quando sei in grado di tirarle fuori. Ci sono persone che non riescono neanche a parlarne con loro stessi, ma queste cose ci sono comunque e magari le somatizzano in altri modi
[…]
La cosa che funziona è che a un certo punto lui (lo psicologo) ti fa delle domande, o ti fa fare delle domande che non ti sei fatto da solo. Andare da lui è servito a capirmi e ad accettarmi di più.
[…]
Una delle cose più importanti di quest’ultima crisi è che non sapevo più in che cosa credere. Mi sembrava tutto finto: le relazioni, l’amore… non avevo più motivazione per alzarmi al mattino e fare le cose.
[…]
Se penso che andavo dallo psicologo, gli raccontavo che non riuscivo a scrivere, che non sapevo se avrei fatto un altro disco e come mi sentivo qualche mese fa, è incredibile come la mia vita sia ripartita“.

Alessandro Busi
Padova, Mestrino e su Skype

Propositi falliti: che storia continuo da qui?

27 agosto 201918 marzo 2020

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Illustrazione di Guido Scarabottolo per l’iniziativa “Corriconme” di Amnesty international

Il rientro dalle ferie porta con sé un’abitudine su cui spesso ironizziamo: i buoni propositi.

Andrò in palestra; mi iscriverò al corso di pittura, scrittura, fotografia, chitarra…; mangerò meglio, andrò a correre; lavorerò meno, lavorerò di più; uscirò di più, uscirò di meno; userò meno lo smartphone, leggerò di più; dedicherò più tempo a…
Anche io mi sono promesso di far uscire un post al mese nel blog: lo farò? Ci riuscirò? Chissà.

A prescindere dal contenuto, che riguarda le passioni e gli interessi e i progetti che ognuno di noi ha, questi propositi ci dicono una cosa che desideriamo: dare una direzione alla nostra vita.

Una cosa che spesso mi succede nella stanza della terapia è di incontrare persone che raccontano di non sapere più dove sta andando la propria esistenza, e quindi di avere la sensazione di non riconoscersi più.

Che fine hanno fatto i miei progetti? Si tramuta facilmente in: che fine ho fatto io?

E sia chiaro che ci hanno provato a riacciuffare il tempo – mi sono detto, ok, fai questo, ma poi le cose mi sovrastavano. E adesso? Come faccio? – ma più questi tentativi falliscono, più sentono che non c’è speranza.

Ecco che allora i propositi diventano qualcosa di molto serio, su cui è certo bene scherzare ma non per questo sono da sminuire, perché racchiudono in sé la speranza di sentirsi padroni del proprio tempo.

Ma dare una direzione alla vita che viviamo significa controllarla? Possiamo essere padroni del nostro tempo? Possiamo veramente averne il controllo?

Un’altra cosa che spesso emerge in psicoterapia è che, se da un lato non ci sta bene lasciare che le cose succedano, d’altro canto la ricerca del controllo è fonte di frustrazione e poco altro.

Ma allora? Che si può fare?

Come dicevo, in terapia spesso questa è una parte del lavoro, ovvero quella di costruire la strada che la persona si sente di sperimentare, e che sia diversa dalle due espresse precedentemente. Una strada fatta di parole nuove, che raccontino una storia nella quale non saremo né vittime del destino, né controllori degli eventi, ma parte in gioco, narratori attivi della nostra vita.

Allora, se di racconto si tratta, anche i propositi hanno un nuovo senso: si trasformano da prove a tentativi, sfide che noi, come protagonisti del nostro romanzo, possiamo affrontare e fallire, perché questo fallimento, non solo ci parla di noi, ma diventa uno snodo, che apre almeno a una nuova domanda:

che storia continuo da qui?

Alessandro Busi
Mestrino, Padova e su Skype

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Alessandro Busi Psicoterapeuta Padova

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Dott. Alessandro Busi psicologo-psicoterapeuta

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