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Alessandro Busi Psicoterapeuta Padova

Ogni vita merita un romanzo

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Tag: alessandro busi skype

La riscoperta delle parole #8: Compromesso

23 giugno 202022 giugno 20201 commento

Guardando i documentari molti restano abbagliati dalla natura: la perfezione dei collegamenti neuronali, delle articolazioni del ghepardo, dell’esca luminescente del melanoceto…
Non è incredibile che tutto si incastri così bene? Sì, ma è perfetto?
L’idea di Telmo Pievani, autore di Imperfezione. Una storia naturale, è che la natura non sia perfetta, ma sia espressione di uno dei percorsi possibili, frutto di continui aggiustamenti, ridefinizioni, errori, messe in discussione e rifondazioni. Per questo, la metafora che lui propone è quella della natura come artigiano, che non insegue la perfezione, ma fa quello che può, con i materiali e le capacità che ha.
Prendiamo la giraffa. Non è affascinante? Certo, ma è perfetta?

“Nella giraffa il nervo laringeo ricorrente, che è cruciale essendo coinvolto nella deglutizione e nelle vocalizzazioni, anziché andare direttamente dal cervello alla laringe come qualsiasi ingegnere lo disegnerebbe, fa un percorso lunghissimo. Sfiora la laringe (la sua meta) ma non si ferma, scende lungo tutto il collo seguendo il nervo vago, passa sotto l’aorta dorsale vicino al cuore e risale di nuovo lungo tutto il collo fino alla laringe dopo aver percorso quasi quattro metri! Non ha alcun senso. È un maldestro compromesso tra il più recente allungamento del collo per selezione naturale e il più antico retaggio della conformazione del nervo vago dei pesci.”

[T. Pievani “Imperfezione. Una storia naturale”, Raffaello Cortina editore]

Ecco quindi la parola che voglio riscoprire oggi: compromesso.

Nonostante il compromesso caratterizzi la storia dell’evoluzione – piena di sfide e di coraggio nell’affrontarle; piena di organi creati, abbandonati e poi riutilizzati; piena di prove ed errori – è una parola a cui abbiamo dato una connotazione negativa: non per niente diciamo scendere a compromessi, mica salire a compromessi.
Non per niente, i compromessi a cui siamo giunti nelle nostre vite, portano per molti con sé dolore, rimpianto, rassegnazione; tutte emozioni che possono aprire alla sensazione di avere di fronte a sé un futuro già scritto e immodificabile.

Spesso è qui che si innesta la scelta di iniziare una psicoterapia: nel desiderio di riprendere in mano le cose, di ricominciare, o cominciare a scrivere una storia che sentiamo appartenerci.
Spesso è qui che ci troviamo a lavorare: nella ricerca di senso di quello che c’è stato, di quello che c’è e nella costruzione di nuove strade possibili.

In qualche misura, quello che paziente e terapeuta si trovano a fare è ridare valore a tutti i compromessi che il paziente ha saputo costruire nella propria vita, talvolta accettando di più, talvolta rendendosi più propositivo, ma comunque facendo quello che sentiva di poter fare (come la natura secondo Pievani).

Immaginando quindi che la giraffa di prima inizi una psicoterapia; immaginando che soffra, si vergogni dell’imperfezione del suo nervo laringeo, della lunghezza del suo collo e quindi del suo corpo; immaginando che questo la faccia sentire vittima di un destino beffardo; nel lavoro assieme al suo terapeuta potrebbe ricostruire la storia di quel suo collo, riscrivere tutte le cose che ha saputo fare grazie a lui, nonostante lui e a prescindere da lui, e da lì potrebbe quindi chiedersi: ok, il mio collo me lo tengo, ma da qui, cosa posso e voglio fare di nuovo?

Alessandro Busi
psicologo e psicoterapeuta
a Padova, Mestrino e su Skype

La riscoperta delle parole #7: anche

1 giugno 20201 giugno 20201 commento

Secondo la Psicologia dei Costrutti Personali viviamo l’ansia quando ci affacciamo a un futuro che non sappiamo immaginare e, tanto più questa impossibilità di immaginare riguarda una fetta rilevante della nostra vita, tanto più questa ansia si farà sentire.

***

È molto comune, nella nostra cultura, l’idea per cui è bene essere qualcosa di unico: io sono così, nient’altro che così.
È un racconto potente, emozionante, ma quale rischio che porta con sé?
Il rischio è che, se le cose non vanno come ci aspettiamo, se arriva una pandemia, per esempio, a scombinarci i piani, ci troviamo con un pugno di mosche e, ripartire da un pugno di mosche, a cui diamo il nome di fallimento, diventa più difficile.

***

Questo mix è l’esperienza che molti stanno vivendo oggi: da un lato le domande che si inseguono – cosa succederà al mio lavoro, alle mie relazioni, alle strette di mano? – dall’altro la paura che, se le cose dovessero cambiare, potremmo non riconoscerci più – che ne sarà di me se cambiano tutte queste cose della mia vita?

Per trovare un modo di stare in mezzo a questo affollarsi di domande, la parola che voglio riscoprire oggi è anche, perché, pur dentro i vincoli sociali e personali che ognuno vive, possiamo chiederci: nella mia vita sono stato anche?

Potremmo scoprire, se ci concediamo tempo e fatica, che siamo più complessi di quel monolite che ci eravamo raffigurati; potremmo scoprire lati di noi che ci piacciono e altri non vorremmo, che bontà e cattiveria, giusto e sbagliato non si distinguono in modo netto, nemmeno dentro la nostra storia; potremmo scoprire che nella nostra vita abbiamo avuto un ruolo attivo e che da lì possiamo ripartire a immaginare il futuro, per quanto anche sfocato, per quanto anche diverso da quello che ci aspettavamo, per quanto anche rischioso, ma di certo anche nostro.

Alessandro Busi
psicologo e psicoterapeuta
a Padova, Mestrino e su Skype

Le precedenti parole riscoperte sono: attesa, quasi, vulnerabilità, come se, relazione, virtuale.

Fare la psicoterapia nella fase 2

18 Maggio 202016 Maggio 2020

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Il tempo è una cosa strana: c’è e non c’è, si fa sentire ma proviamo a ignorarlo.
Sarà per questo, per dare corpo a qualcosa che corpo non ce l’ha, che tendiamo a suddividere quel flusso continuo?
Perché con il tempo raccontiamo come eravamo, come siamo e come saremo, trovando differenze e somiglianze, quindi abbiamo bisogno di qualcosa che faccia da unità di misura dei nostri cambiamenti – giornate, anni, età, fasi della vita, epoche storiche…

Anche questa pandemia la stiamo raccontando per fasi.
Ci sono state state la fase del pericolo lontano, poi quella della sottovalutazione, poi quella dell’emergenza, poi quella del lockdown, la cosiddetta fase 1, e ora siamo sempre di più dentro la fase 2, che potremmo chiamare fase della discrezionalità e della costruzione del futuro.
Nella fase 1 eravamo in una situazione di attesa e la risposta a molte domande era “no”, oggi siamo in una fase potenzialmente lunga e in cambiamento, nella quale, alle domande, si risponde con “dipende”, “pensaci”, “valuta”.
Questo, dandoci molta più libertà, ci mette di fronte alle nostre scelte e ai nostri timori, che non possono più stare nascosti nelle mura del divieto; ma diventano responsabilità personale e collettiva.
Ma d’altro canto, c’è altro modo per costruire un futuro a lungo termine?

Anche nella psicoterapia emergono nuove domande – Cosa desidero? Di cosa ho paura? Cosa mi sento di fare? Cosa penseranno gli altri di me? Cosa dovrei fare? – che riguardano sì la vita da costruire dentro i nuovi vincoli, ma anche le nostre paure più personali e di vecchia data: la paura di sbagliare, la paura del giudizio, la paura di non essere all’altezza…
Perciò ansia, desiderio di rinchiudersi, desiderio di sottovalutare, di fingere che tutta la situazione non sia vera; ma anche la possibilità di chiederci: cosa vorrei tenere di questo periodo nel mio futuro? Cosa dicono di me queste nuove paure? Come posso fare?
Magari scopriamo che questa situazione sta facendo emergere vissuti che già ci appartenevano e che ora non possiamo più sopire; ma potremmo scoprire anche che la nuova scansione delle giornate non la vogliamo buttare, oppure che le relazioni hanno un valore diverso rispetto a quello che avevamo dato loro fino a due mesi fa. E quindi di nuovo, come possiamo fare per tenerci strette queste nuove consapevolezze e renderle concrete nel futuro?

Come possiamo fare? è la domanda che mi sono posto anche io quando ho deciso che avrei gradualmente ripreso a fare i colloqui anche negli studi di Mestrino e Padova e mi sono risposto due cose:
– primo, che rimane la possibilità, per chiunque lo desideri, di effettuare la psicoterapia via Skype. Questa scelta nasce, da un lato dalle ragioni sanitarie per le quali qualcuno potrebbe preferire non venire in studio, dall’altro perché, in queste settimane più ancora di prima, mi sono reso conto che la psicoterapia via Skype non è una psicoterapia inferiore, ma una delle possibilità che oggi abbiamo di stare nella relazione clinica, possibilità che porta con sé vissuti, significati, emozioni che permettono un lavoro intenso e personale;
– secondo, che, proprio perché il lavoro di psicoterapia è personale, se per qualcuno la terapia online è percorribile, per altri non lo è, quindi, seguendo le indicazioni dell’Ordine degli psicologi del Veneto, ho ritenuto fosse importante riprendere le attività anche di persona nei modi più sicuri possibile:

  • poltrone a distanza di almeno 2 metri;
  • obbligo di indossare la mascherina;
  • gel igienizzante in studio da usare all’arrivo e prima di uscire;
  • pulizia delle superfici e ricambio di aria fra un colloquio e l’altro.

Tutto questo per me significa novità, che nasce dal compromesso fra le vecchie abitudini e le nuove condizioni, perché, proprio come abbiamo sempre fatto con la vita, è così che possiamo ripartire dentro questa nuova fase: tenendo ciò che per noi conta, lasciando andare qualcosa che non ci piace, che non possiamo continuare oppure che non sentiamo più appartenerci, e costruendo nuove strade da percorrere.

Alessandro Busi
psicologo e psicoterapeuta a Padova, Mestrino e su Skype

La riscoperta delle parole #6: virtuale

6 Maggio 20202 commenti

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A febbraio uscì una notizia che mi colpì molto. Ve la riassumo, ma lascio anche il link a un articolo più completo. La storia è questa.
Un vigile urbano di 44 anni di un piccolo paese lombardo parcheggiò impropriamente la propria auto in un parcheggio per disabili. Il presidente di un’associazione per disabili la fotografò e denunciò attraverso i propri canali social il comportamento scorretto. A quel punto, il vigile fu inondato di offese, minacce e auguri di morte, che continuarono anche quando pagò la multa e quando fece una donazione all’associazione accompagnata a una lettera di scuse per l’errore commesso. Ma la cosa ormai era sfuggita di mano.
Quello che immagino è che, per quest’uomo, la vergogna fosse diventata troppo grande da sopportare, così, il 3 febbraio, decise di togliersi la vita.
La storia potrebbe finire qui, invece nei giorni successivi fu il presidente dell’associazione a diventare bersaglio di offese, minacce, auguri di morte.

Potremmo chiederci tante cose per capire una tragedia simile: perché denunciamo i comportamenti scorretti attraverso i social, cosa ci aspettiamo che accada? Come funziona la dimensione di branco, quando il territorio è quello telematico?
Potremmo interrogarci sulla vita dentro la quale queste offese cadevano. Alcuni articoli hanno sottolineato che il vigile viveva già una situazione di sofferenza. Certo, dico io, ma questo non ci assolve, anzi, ci ricorda che ogni volta che commentiamo, offendendo o elogiando, non stiamo scrivendo parole che cadono nel vuoto, ma stiamo intervenendo nella vita di qualcun altro, una vita già fatta di felicità, dolori, paure, speranze…
A prescindere dal punto di vista che scegliamo di adottare, è innegabile che le esperienze virtuali generino dentro di noi emozioni che sono reali tanto quanto le emozioni legate alle esperienze offline.

In queste settimane, tutti, anche i più restii, ci siamo trovati di fronte alla necessità di ampliare la nostra vita telematica: per lavorare, per poter incontrare parenti e amici, per poter allargare le mura di casa. Qualcuno ha accolto questa novità, qualcuno l’ha rifiutata, molti l’hanno accettata con momenti alterni di piacere e fastidio. Non credo ci sia un modo giusto e uno sbagliato di viverla, ma quello che è certo è che tutti abbiamo provato, rispetto al nostro essere online, emozioni che non possiamo sminuire, perché sono emozioni che riguardano le nostre relazioni, il nostro mondo e la possibilità di immaginarci nuovi.

Lo stesso è successo anche in psicoterapia. L’aumento – parlo di aumento perché io ho sempre fatto anche terapia online – dei colloqui via Skype ha permesso di scoprire differenze personali dentro un cambio di setting così forte (chi lo preferisce? Per chi è difficile? Come mai?), ha permesso modi nuovi di stare assieme (es. Come mi sento a chiedere la privacy ai miei familiari?), emozioni potenti – positive e negative che siano – che non ci saremmo aspettati (es. Come mi sento a raccontarmi in terapia, ma dentro le mura di casa?). In altri termini, questi nuovi vincoli ci hanno obbligato a esplorare strade che magari non avremmo percorso e quindi ad averle, ora e nel futuro, come alternative in più.

Per questo, la parola che voglio riscoprire oggi è virtuale, perché possiamo provare a smettere di considerarla come un realtà meno reale, ma come una via possibile: possiamo rifiutarla, accettarla, oppure decidere in che modo percorrerla; possiamo chiederci come ci stiamo, cosa ci concediamo, cosa evitiamo e cosa potremmo fare di diverso; possiamo chiederci che ricadute ha nella nostra vita, nelle nostre relazioni; possiamo immaginare le ricadute di ciò che facciamo nelle vite di chi incontriamo online; ma non possiamo prescindere dal pensare che fa parte della storia che scriviamo, oggi.

Alessandro Busi
psicoterapeuta a Padova, Mestrino e su Skype

Le precedenti parole riscoperte sono: attesa, quasi, vulnerabilità, come se, relazione.

La riscoperta delle parole #5: relazione

22 aprile 202022 aprile 20204 commenti

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particolare della copertina di “Possiamo salvare il mondo, prima di cena” di Johnatan Safran Foer

La parola di oggi la riscopriamo* grazie all’iniziativa #NoiRestiamoInContatto della Scuola di Psicoterapia Costruttivista Icp di Padova: una serie di video di vari professionisti sanitari – psicologi e non – che esplorano il periodo che stiamo vivendo da punti di vista diversi.

Il contributo che ho provato a dare ruota attorno alle storie che raccontiamo di noi e degli altri, agli eroi che volevamo essere e a quelli che potremmo essere, partendo dal presupposto che in questo periodo stiamo riscoprendo una parola più di tutte: relazione.

Di seguito trovate il video e poi il testo che mi ha fatto – più o meno – da traccia.

Buongiorno a tutti, sono Alessandro Busi e sono uno psicologo e psicoterapeuta e, di fianco all’attività clinica, mi occupo anche di scrittura, di narrazioni.

Per questo tendo a ragionare per parole, quindi, quando mi è stato proposto di partecipare all’iniziativa “Noi restiamo in contatto”, mi sono chiesto quale parola stesse segnando più di altre questo periodo, e mi sono risposto: relazione.

Non mi riferisco solo al contraltare dell’isolamento, ma ne farei un discorso più ampio.

Partiamo da una domanda: come è successo che abbiamo imparato a considerare l’autonomia e la singolarità come contrapposte alle relazioni, come se le due cose si escludessero a vicenda?

Guardiamo alla nostra storia, l’idea di eroe solitario ci accompagna da Ulisse contro Polifemo, Il vecchio di Hemingway che affronta il marlin, la self made woman Miranda di Sex and the City, il rapper Tupac Shakur che intitolò il suo terzo disco Me against the world. Ma, anche ammesso che siano eroi solitari, la domanda di prima rimane: questo essere eroi solitari li rende estranei alle relazioni?

Tempo fa leggevo un libro di Jonathan Safran Foer, Possiamo salvare il mondo, prima di cena, che quasi all’inizio parla del Libro dei finali secondo il quale ogni respiro che facciamo conterrebbe una piccola parte di tutti i respiri della storia della mondo: Giulio Cesare, Napoleone, i mammut, la nostra maestra dell’asilo… tutti, attuali e passati. Foer poi dice: “A ogni ispirazione assorbivo la storia della vita e della morte sulla terra. Questo pensiero mi offriva una veduta aerea della storia: un’ampia rete fatta di un unico filo”.

Ecco, questa immagine della rete fatta da un unico filo mi è spesso tornata in mente in questo periodo perché rende bene la responsabilità del nostro ruolo individuale dentro un tessuto di relazioni; ci dice stare in relazione non è opposto a essere individui, ma anzi, proprio perché esistiamo come singoli, singoli nodi della rete, siamo interconnessi con gli altri.

Credo che l’esperienza che stiamo facendo di questo virus ci stia inchiodando proprio alla nostra condizione di esseri viventi in relazione – tutte: ristrette, online, cliniche, lontane, vicine, immaginate, solitarie, fra persone, economiche, fra età, fra specie…:

  • quando pensiamo “potrei essere venuto in contatto con il virus?” e allora scopriamo la miriade di persone con le quali siamo collegati in pochi passaggi;
  • quando sperimentiamo l’utilità e la fatica dell’isolamento sociale, che ha ricadute così ampie che a volte facciamo fatica perfino a convincerci che sia vero;
  • Quando ci ricordiamo che siamo ammalabili, quindi che potremmo noi stessi avere bisogno delle cure di qualcuno.

Bene, ma cosa possiamo farcene di queste nuove consapevolezze? Io immagino almeno tre strade, tutte e tre umanamente molto comprensibili:

  • Possiamo reagire con rabbia, obbligarci a tornare a vivere con le stesse convinzioni individualista di sempre, che però ora sono accompagnate dalla sensazione di fragilità, quindi, più ci aggrappiamo, più le sentiamo sgretolarsi, quindi più abbiamo paura che possano non reggere;
  • Possiamo rassegnarci, sentirci inermi, in balia del destino, stavolta la paura sarà diversa, più vicina al terrore, il terrore di chi sente che basta un colpo d’aria per cambiare tutto;
  • Possiamo concepire che abbiamo paura, ansia, panico e terrore; possiamo concepire che ci sono alcune cose che di questa quarantena ci piacciono, e che questo, magari, ci fa sentire in colpa; possiamo concepire che siamo arrabbiati perché sentiamo che ci toccherà cambiare il nostro modo di vivere, rimodulare le speranze su cui avevamo puntato. Possiamo dare spazio alla portata emotiva di questa delusione e poi, se ce la sentiremo, quando ce la sentiremo, potremo chiederci:
    Bene, cosa possiamo fare?
    Chi vorrei e chi mi sento e chi ho paura di essere con gli altri?
    Chi mi piacerebbe e chi ho paura che gli altri siano con me?
    E così via, provando insomma a chiederci: in quali altri modi possiamo stare dentro quella rete a filo unico?

Io non so la risposta a queste domande, e credo anzi che in questo periodo circolino fin troppe risposte e ricette su come dovremmo vivere questo tempo difficile. Quello di cui sono convinto, invece, è che questo virus stia precipitato dentro le biografie di tutti noi e che quindi spetti a ognuno di noi porci queste domande e assieme dare spazio a quello che sentiamo, così da permetterci di costruire, da soli e quindi assieme, delle nuove storie, dei nuovi miti e dei nuovi eroi che vorremmo e essere.
Non è semplice, ma può valerne la pena, perché, di fronte a un cambiamento così grande, quello che siamo chiamati a fare è proprio far ripartire le storie: da qui, che tipo di eroi possiamo essere.

Alessandro Busi

*Le precedenti parole de La riscoperta delle parole sono: attesa, quasi, vulnerabilità e come se.

La riscoperta delle parole #2: quasi

1 aprile 202030 marzo 20206 commenti

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frame tratto da “L’amica geniale – Storia del nuovo cognome”

Qualche settimana fa è finita la seconda stagione della serie L’amica geniale, tratta dall’omonimo romanzo – quadrilogia – della scrittrice misteriosa Elena Ferrante.
Per chi non la conosce, L’amica geniale è la storia dell’amicizia fra Elena e Lila, un’amicizia lunga una vita e che attraversa il dopoguerra italiano e arriva quasi a oggi.
La seconda stagione racconta l’adolescenza e la prima età adulta delle protagoniste, quindi il costruirsi di due percorsi di vita distanti: Elena studia, Lila si sposa sedicenne e va subito a lavorare; Elena frequenta la Normale di Pisa, Lila si ferma a Napoli, apparentemente vittima di un destino sociale già scritto.
Nonostante queste disparità, che ci potrebbero far pensare che sia Elena quella, diciamo così, di successo, non si argina la sua sensazione di sentirsi meno di Lila.
Nell’ultima puntata, c’è un monologo in cui spiega questa sua sensazione:

All’improvviso mi resi conto che tutta la mia vita era un “quasi”.
Ce l’avevo fatta? Quasi.
Mi ero strappata a Napoli e al rione? Quasi.
Avevo amiche e amici nuovi, che venivano da ambienti colti? Quasi.
Di esame in esame ero diventata una studentessa ben accolta dai professori che mi interrogavano? Quasi.
Dietro tutti quei quasi, mi sembrò di vedere come stavano le cose. Avevo ancora paura e sentivo che da qualche parte, Lila, come sempre, era senza “Quasi”.

Chi può dire di non capire Elena? Quel sentirsi insufficiente rispetto al percorso che sta facendo, e più ancora rispetto alle aspettative che aveva per sé.
E chi può dire di non comprendere quel paragone rispetto a una persona che le sembra più completa di lei?
Tante volte, in terapia, mi è capitato di sentirmi dire “mi sembra che gli altri siano più completi di me, che sappiano vivere meglio di me”. Chi può dire di non averlo mai pensato?

Allora mi chiedo: perché ci preoccupa tanto essere quasi?
A leggere quello che dice Elena, sembra che sentirsi quasi sia una colpa, rispetto al dovere di sentirsi finita. Ma perché vogliamo sentirci completi quando ancora ne abbiamo da vivere?

Quasi è una sensazione che sperimentiamo anche in questi giorni in cui ci sentiamo di vivere, quasi. E questo ci fa soffrire perché, come dicevamo parlando di attesa, non ci piace vivere in un tempo diminuito, tanto più quando questo tempo si fa e si prospetta lungo.

Allora possiamo provare a muovere il punto di vista e porci delle domande come:
in cosa mi sento quasi?
In cosa mi sta bene sentirmi quasi? In cosa lo odio?
Qual è la storia di questo mio quasi?

Potremmo scoprire che sentirci di non aver completato un percorso – metaforico o concreto che sia – ci può aprire la possibilità di proseguire, oppure di cambiare, anche se ci sembra difficile, o addirittura impossibile.
Potremmo scoprire, come sarà per Elena, che sentirci quasi ci può portare ad avere meno punti assoluti, magari più paura, ma anche più tenacia per dare forma alle nostre strade e relazioni, per quanto in costruzione, per quanto quasi.

Alessandro Busi

*La prima parola della rubrica “La riscoperta delle parole” la trovate qui: attesa.

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