
Il primo colloquio in privato: due poltrone poco distanti (eravamo ad anni e anni dalle attenzioni sviluppate con l’arrivo del covid), un tavolino, due persone che si parlano: un paziente e un terapeuta.
Era maggio, il sole non entrava diretto – in quello studio entrava solo alla mattina.
Negli anni, in quella stanza, sarebbero passate tante storie, lacrime, risate, desideri di cambiare e paura di farlo; persone.
La scorsa settimana ho svolto il mio ultimo colloquio nello studio di Mestrino.
Da gennaio 2023 mi dedicherò interamente allo studio di Padova.
Complici tutte le faccende che si devono fare quando si lascia uno spazio, avevo sottovalutato la portata di questo cambiamento; fino a quando ho iniziato a spegnere le luci.
Come le costellazioni fosforescenti che si appiccicano nelle camerette dei bambini, mi sembrava di poter leggere sulle pareti le frasi pronunciate, le emozioni sperimentate, le prime parole dette e i saluti alla fine dei percorsi; vedevo il tempo procedere al contrario nella ricostruzione delle persone che in questi anni mi avevano dato la fiducia della terapia.
No, non era un cambiamento da poco.
E proprio perché non era un cambiamento da poco, ne ero ancora più convinto, perché i movimenti importanti non possono che portare con sé eccitazione verso il nuovo e paura di aver perso il conosciuto.
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Vygotskij era uno psicologo russo. Erano gli anni in cui i russi venivano ancora chiamati sovietici, perciò la sua teoria dello sviluppo ebbe poco successo in occidente, fino a che non fu riscoperta prima da Piaget e poi Bruner, che lo avrebbero consacrato come uno dei maestri.
Un architrave del suo pensiero è l’idea di Zona di sviluppo prossimale, ovvero l’idea per la quale noi acquisiamo una conoscenza nuova nel momento in cui abbiamo le strutture cognitive per assimilarla cambiando le strutture cognitive stesse, in un continuo processo di ricostruzione.
Se ci pensiamo è un’idea tanto semplice quanto rivoluzionaria. Più in generale lui capì che, come persone, andiamo incontro ai cambiamenti che ci sentiamo di poter reggere.
Questo principio, portato nella psicoterapia, comporta che cambiare, per quanto ci piacerebbe, non è un percorso lineare, ma un filo intricato di tentativi, passi di lato, nuovi tentativi, esperimenti di cui nemmeno ci accorgiamo, ritorni a vecchie abitudini, aperture a nuove possibilità… perché cambiare significa ricostruire l’idea che abbiamo di noi, modificare la nostra storia personale, il modo di pensarci, entrare in nuove zone di sviluppo prossimale quindi affacciarci a ulteriori cambiamenti.
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Dando le mandate alla porta dello studio di Mestrino, mi sono reso conto che stavo anche chiudendo una fase della mia vita professionale in favore di una nuova, in cui stabilità locativa e sperimentazione terapeutica avrebbero danzato in modo nuovo, dandomi accesso alla domanda: che possibilità si aprono da qui?
Mi sono reso conto che questo cambiamento è stato prima un pensiero vago, poi un desiderio che faceva paura, poi una prospettiva lontana che si è trasformata in possibilità percorribile quando mi sono sentito di avere le spalle per viverla.
Mi sono chiesto, scendendo le scale e ampliando lo sguardo, quante volte, come persone, incolpiamo i noi del passato di non essere stati coraggiosi, senza provare a ricordarci chi eravamo in quel momento, come ci faceva sentire la prospettiva di, che ne so, cambiare lavoro, relazione sentimentale, idea di noi stessi…

Per questo, pensando alla fine dell’anno come a un momento di sguardo da camaleonti, con gli occhi apparentemente autonomi ma collegati uno al passato e uno al futuro, mi sento di augurare di poter guardare alla propria storia con una quota di comprensione umana, che permetta di prendere in mano il futuro chiedendosi: cosa mi sento di vivere di quello che desidero?
Non sempre è facile, alle volte la psicoterapia serve proprio a darsi la possibilità di rispondere a quella domanda, in modo che nella vita possiamo costruire una storia piena di senso, che, quando ce la sentiamo, ci faccia sentire liberi di cambiare.